Civile
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 06/09/2022 Scarica PDF
Usucapione della piena proprietà di fondo enfiteutico: non c'è davvero più niente da dire?
Nicolò Crascì, Giudice nel Tribunale di CataniaL’arresto di Cassazione civile, sez. VI-II, 24 agosto 2022 n. 25301 sembrerebbe non lasciar adito a dubbi residui. La Suprema Corte ritiene (dopo aver sanzionato di inammissibilità i primi due motivi) manifestamente infondato il terzo motivo di ricorso rivolto a censurare l’affermazione dei giudici di merito che, sia in primo che in secondo grado, avevano concluso che il ricorrente non potesse aver acquistato per usucapione il fondo al centro della controversia in difetto di alcun atto di interversione – quali quelli contemplati dall’art. 1164 c.c. – a partire dal quale potersi ritenere che fosse decorso il termine di legge per usucapire.
È bastato agli Ermellini richiamare due massime della loro giurisprudenza per sancire - poste la premesse (che già, tuttavia, non brillano per chiarezza, risultando infatti apparentemente contraddittorio che si affermi che “La proprietà, naturalmente, può essere acquistata da chiunque con il possesso ad usucapionem protratto per il termine di legge” dopo che, un momento prima, si era dato atto che “il dominio diretto è imprescrittibile”) - che “l'enfiteuta... non può - per il preciso disposto dell'art. 1164 cod. civ. vigente e dell'art. 2116 del cod. civ. abrogato - usucapire la proprietà se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario”: laddove – si sanziona infine – “l'omesso pagamento del canone, per qualsiasi tempo protratto, non giova a mutare il titolo del possesso, neppure nel singolare caso che al pagamento sia stata attribuita dalle parti efficacia ricognitiva”.
Che agli effetti di cui all’art. 1164 c.c. il possesso dell’enfiteuta vada assimilato a quello del titolare di altro diritto reale di godimento non appare, tuttavia, per niente pacifico: e tanto si ritiene che, piuttosto che predicarsi una manifesta infondatezza del motivo di ricorso, dovesse essere quantomeno – anche se soltanto per negarlo infine – segnalato.
Che l’art. 1164 c.c. non sia applicabile anche all’enfiteuta è stato, in realtà, riconosciuto non soltanto in dottrina[1] ma anche dalla stessa Suprema Corte allorchè affermava che “L’omessa richiesta da parte del concedente della ricognizione del proprio diritto, ai sensi dell’art. 969 c.c., non nuoce all’esistenza del rapporto enfiteutico solo se con essa non concorra l’acquisto per usucapione da parte dell’enfiteuta che abbia posseduto come pieno proprietario”[2]. Se ciò vero, pare di dover allora riconoscere – una volta ripresa la definizione, fornita dal volume più famoso della dottrina italiana dell’Ottocento in materia[3], secondo cui l’enfiteusi è il diritto che deriva dal “contratto col quale viene concessa una cosa immobile, in perpetuo od a tempo, verso una pensione o canone che si presta al padrone direttoa ricognizione di dominio” – che il possesso dell’utilista “come pieno proprietario” debba essere contrassegnato, al suo esordio, non già da atto di interversione quanto, invece, dalla cessata corresponsione del canone di censo già versato “a ricognizione di dominio”: soltanto entro contesto così ricostruito apparendo, infatti, giustificabile l’affermazione che “L’omessa richiesta da parte del concedente della ricognizione del proprio diritto …… nuoce all’esistenza del rapporto enfiteutico”[4].
In contrario – occorre precisare – non si presta a deporre il disposto di detto art. 969 secondo cui il concedente “può” richiedere la ricognizione del proprio diritto, ciò da cui taluno pretende di desumere che questa non debba invece essere richiesta dallo stesso concedente a pena di estinzione del diritto medesimo. Al riguardo si è persuasivamente replicato che il concedente che si veda corrisposto il canone di censo periodico può anche esimersi dal richiedere la ricognizione del proprio diritto senza che debba, per questo, temere alcuna usucapione dell’enfiteuta: usucapione che può, all’opposto, essere impedita solo da un atto di ricognizione se l’utilista abbia posseduto “come pieno proprietario” astenendosi – a partire da un certo tempo, e per tutto il tempo necessario ad usucapire – dal versamento del canone di censo periodico.
Ancora, non sembra che il richiamo di quella sola sua esegesi che pone sullo stesso identico piano il “disposto dell'art. 1164 cod. civ. vigente e dell'art. 2116 del cod. civ. abrogato” sia stato dei più felici giacchè, in realtà, l’art. 2115 del Codice Pisanelli (ricompreso nel capo attinente le “cause che impediscono o sospendono la prescrizione”) - cui l’art. 2116 anzidetto rinviava (prevedendo, infatti, che “Le persone indicate nel precedente articolo possono tuttavia prescrivere, se il titolo del loro possesso si trova mutato o per causa provegnente da un terzo, o in forza delle opposizioni da loro fatte contro il diritto del proprietario”) - sanciva che “Non possono prescrivere a proprio favore quelli che possedono in nome altrui e i loro successori a titolo universale. Sono possessori in nome altrui il conduttore, il depositario, l’usufruttuario e generalmente coloro che ritengono precariamente la cosa”: agli effetti della prescrizione acquisitiva, pertanto, l’enfiteuta non era anch’egli possessore in nome altrui cui, come tale, fosse dato di mutare il titolo del proprio possesso mediante atto di interversione. Dunque, ed in definitiva, quello dell’enfiteuta – cui l’art. 1563 del codice civile abrogato attribuiva espressamente la qualità di “possessore del fondo” – era un possesso sui generis, perché non corrispondente all’esercizio di un diritto reale di godimento: per il Codice Pisanelli l’enfiteusi non era, affatto, un diritto reale di godimento ma un contratto tipico, disciplinato dal suo art. 1556 secondo cui “L’enfiteusi è un contratto con cui si concede, in perpetuo o a tempo, un fondo con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un’annua determinata prestazione in denaro o in derrate”; contratto mercè il quale (per quanto – non si vuol sottacere – nozione del genere risulti di non immediata comprensione a chi si sia formato nel vigore del codice civile del 1942) la parte cui venivano trasferite soltanto alcune delle facoltà, ancorchè nel loro complesso di preponderante rilevanza, del diritto di piena proprietà di controparte acquistava anche il possesso cum juribus et pleno dominio del fondo oggetto di negoziazione.
Ed a questo punto – nell’ottica del redattore di questa breve nota di commento – il cerchio si chiude: il versamento al domino eminente del canone di censo periodico previsto in contratto non si atteggia a semplice pagamento di un corrispettivo ma serve, soprattutto, a fornire costante testimonianza del concorrente possesso, anch’esso sui generis, di chi lo riscuote; detto canone viene cioè prestato, con le parole del Borsari, “al padrone direttoa ricognizione di dominio”, ditalchè la sua mancata corresponsione rende già manifesta, da sé soltanto, la volontà dell’utilista di non riconoscere più il concorrente possesso del domino eminente.
Analoga ratio sorregge, d’altro canto, quanto risulta pacifico[5] in materia di usucapione di bene comune, vale a dire che il comunista ben possa usucapire anche in assenza di atti di interversione.
Sarebbe auspicabile – si ritiene – un intervento delle Sezioni Unite, anche se la materia a taluno sa forse di vecchio e stantio….
[1] RUPERTO C., Usucapione (diritto vigente), in Enc. Dir., XLV, Milano, 1992.
[2] Cass. 19.8.57 n. 3405, in Giust. Civ. Rep., 1957, voce Enfiteusi, n. 62.
[3] BORSARI L., Il contratto d’enfiteusi, sopravvivenze del dominio diviso nell’età della codificazione, Ferrara 1850.
[4] In termini MESSINEO F., “La finalità dell’atto di ricognizione è evitare l’estinzione del diritto del concedente – nell’enfiteusi perpetua o di durata superiore al ventennio – per effetto di usucapione del diritto medesimo da parte del possessore del fondo enfiteutico. L’atto di interruzione funge da mezzo di interruzione dell’usucapione (arg. 1165 e 2944 c.c.)”, così in Manuale di Diritto Civile e Commerciale, 9^ Ed. (Milano 1950-55).
[5] La giurisprudenza in argomento è sempre stata di segno univoco: tra gli arresti più recenti Cass. II 12/04/2018 n. 9100, “Il partecipante alla comunione che intenda dimostrare l'intenzione di possedere non a titolo di compossesso, ma di possesso esclusivo ("uti dominus"), non ha la necessità di compiere atti di "interversio possessionis" alla stregua dell'art. 1164 c.c., dovendo, peraltro, il mutamento del titolo consistere in atti integranti un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed "animo domini" della cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui”.
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