Bancario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 31/12/2007 Scarica PDF
Appunti sul contratto relativo alla prestazione del servizio di "consulenza in materia di investimenti" (art. 1, comma 5, lett. f, d. lgs. n. 58/98)
Gioacchino La Rocca, Professore ordinario di diritto civile nell'Università di Milano Bicocca1. Le parti -
Il d. lgs. 17 settembre 2007, n. 164, ha modificato in modo sensibile il d.
lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (testo unico della finanza), d'ora in avanti
indicato come "tuf", adattando quest'ultimo alla Direttiva 2004/39/CE
relativa ai mercati e agli strumenti finanziari.
Le modificazioni recate al tuf hanno riguardato anche l'art. 1, comma quinto,
che ha ad oggetto i "servizi e le attività di investimento". Le
novità che hanno interessato tale disposizione comprendono anche la
configurazione del "servizio di consulenza in materia di
investimenti" quale autonomo servizio di investimento (1). A proposito di
questo nuovo servizio il comma 5-septies, art. 1, tuf, dispone che "per
"consulenza in materia di investimenti" si intende la prestazione di
raccomandazioni personalizzate a un cliente, dietro sua richiesta o per
iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o più operazioni
relative ad un determinato strumento finanziario. La raccomandazione è
personalizzata quando è presentata come adatta per il cliente o è basata sulla
considerazione delle caratteristiche del cliente. Una raccomandazione non è
personalizzata se viene diffusa al pubblico mediante canali di
distribuzione".
Con riguardo a tale servizio la novità introdotta con il d. lgs. n. 164/07 è
consistita nel fatto che la consulenza, da servizio accessorio che è stato dal
1996 (2), è tornato ad essere un servizio di investimento vero e proprio, ossia
è tornato attività riservata ai soggetti esplicitamente indicati dalla legge,
come lo era stato dal 1991 al 1996.
Si è così individuata una prima circostanza avente precise ricadute sul piano
strettamente civilistico: mentre dal 1996 al 30 ottobre 2007 il contratto
avente ad oggetto la prestazione di consulenza in materia di investimenti era
valido a prescindere dalla "qualità" della parte che vi figurava come
"consulente", ora il contratto è valido solo se il consulente è uno
dei soggetti tassativamente indicati dalla legge (3).
Peraltro, se si presta attenzione alle norme del tuf che individuano i soggetti
legittimati all'esercizio della consulenza in materia di investimenti, ci si
rende agevolmente conto che il contratto relativo al servizio di consulenza
esibisce caratteristiche tali da differenziarlo sensibilmente dai contratti
aventi ad oggetto la prestazione degli altri servizi di investimento. Di
regola, infatti, nei contratti relativi ai servizi di investimento, controparti
degli investitori possono essere solo quelle società per azioni munite dei
requisiti statutari e legislativi necessari per poter svolgere una delle
attività sottintese nell'elenco contenuto nella lettera r del comma 1, art. 1,
tuf (4). Non solo: tali società per azioni possono in concreto concludere un
valido contratto per la prestazione dei servizi di investimento a condizione
che siano state effettivamente autorizzate, ai sensi dell'art. 19 tuf, allo
svolgimento dello specifico servizio dedotto in contratto.
Nel caso del contratto di "consulenza in materia di investimenti" non
è così.
Il contratto di "consulenza in materia di investimenti", infatti, può
essere concluso non solo dagli intermediari finanziari espressamente
autorizzati allo svolgimento del servizio, ma anche da persone fisiche iscritte
all'albo dei "consulenti finanziari" previsto dal comma 2 del nuovo
art. 18- bis tuf (5). Dunque, possono essere controparti dell'investitore in un
contratto di consulenza le imprese di investimento, le banche (arg. ex art. 181
tuf), le società di gestione del risparmio, le "società di gestione
armonizzate ... qualora autorizzate nello Stato membro d'origine" (arg. ex
art. 182 tuf). Oltre a queste società per azioni - secondo quanto si è sopra
anticipato - possono essere controparti dell'investitore le persone fisiche
inscritte nell'albo dei "consulenti finanziari" purché non detengano
"somme di denaro o strumenti finanziari di pertinenza dei clienti"
(v. ancora art. 18-bis, comma 1, tuf).
L'ipotesi del contratto di consulenza concluso con il "consulente
finanziario" non deve essere confusa con la diversa ipotesi caratterizzata
dal fatto che la "consulenza in materia di investimenti" è in
concreto somministrata all'investitore dal promotore finanziario: quest'ultimo
è la persona fisica della quale, in qualità di dipendente, agente o mandatario,
si avvale un "soggetto abilitato" per l'offerta fuori sede dei propri
servizi di investimento, e nella specie per offrire fuori sede il servizio di consulenza
(artt. 30 e 31 tuf). In questo secondo caso la persona fisica che interloquisce
col cliente (vale a dire il promotore finanziario) non è parte del contratto di
consulenza, ma è solo una persona che, a vario titolo (v. ancora art. 312 tuf: "
... come dipendente, agente o mandatario ..."), agisce nell'ambito di un
rapporto privatistico nell'interesse dell'intermediario, al quale è legato da
un rapporto fiduciario (6). In altre parole, in questo secondo caso, tenuto
alla prestazione della consulenza e direttamente responsabile per essa non è
tanto la persona fisica, ma anche e soprattutto l'intermediario finanziario.
2. Il servizio di consulenza in materia di investimenti e la c.d.
"consulenza generica" - Per individuare il contenuto del contratto di
consulenza occorre preliminarmente risolvere il problema dei tratti essenziali
del servizio che esso è destinato a disciplinare, così da poterlo, se
possibile, distinguere da fattispecie in qualche modo analoghe. In proposito,
occorre rammentare che ormai risalente e consolidato è il rilievo, secondo il
quale un'attività di presentazione delle opportunità di investimento e di
assistenza del cliente nella scelta degli investimenti medesimi sia momento
inscindibile di ogni servizio di investimento (7): questa attività di
presentazione di prodotti e di assistenza al cliente è stata comunemente detta
attività di "consulenza generica" o "strumentale", che
dovrebbe essere insita nella stessa attività di promozione finanziaria.
Ancora recentemente si è dubitato dell'effettiva utilità della distinzione tra
"consulenza in materia di investimenti", quale ormai autonomo
servizio di investimento, da un lato e c.d. "consulenza generica"
dall'altro lato. Più precisamente si è detto che, su un piano meramente
concettuale, tale dicotomia non gioverebbe all'identificazione dei tratti
distintivi del servizio di investimento di cui all'art. 15, lett. f, tuf; si è,
inoltre, aggiunto che l'elaborazione della nozione di "consulenza
strumentale" sarebbe inutile sotto il profilo operativo, dal momento che
il concetto di "consulenza strumentale" non sarebbe idoneo a
coagulare intorno a sé una griglia di regole operative autonome. Ciò perché -
si è aggiunto - la "consulenza strumentale" sarebbe governata dalle
regole valide per il servizio di investimenti effettivamente richiesto dal
cliente, al quale servizio la c.d. "consulenza strumentale" di volta
in volta accede in funzione preparatoria ed ancillare (8).
Non sembra possibile condividere l'approccio cui si è appena fatto cenno.
Esso, innanzi tutto, non tiene conto che la distinzione tra consulenza quale
servizio di investimenti e "consulenza generica", trova conferma
nello stesso impianto normativo della Direttiva 2004/39/CE, quando
quest'ultima, nell'art. 4, n. 25, definisce il c.d. "agente
collegato" precisando che si tratta della "persona fisica o giuridica
che, sotto la piena e incondizionata responsabilità di una sola impresa di
investimento per conto della quale opera, ... presta consulenza ai clienti o
potenziali clienti rispetto a detti strumenti o servizi finanziari".
A proposito della definizione di "agente collegato" è utile
preliminarmente confermare che la figura cui qui si fa riferimento, il tied
agent, equivale nell'ordinamento italiano al promotore finanziario. Sul punto è
sufficiente richiamare l'attenzione sul fatto che la figura dello "agente
collegato", delineata dall'art. 4, n. 25, della Direttiva cit., presenta i
tratti caratteristici del promotore finanziario: si tratta, infatti, di un
soggetto che opera in monomandato per conto di una "impresa di
investimento" per promuovere i servizi e gli strumenti finanziari trattati
dall'impresa medesima. Confermato, dunque, che il soggetto protagonista delle
attività rappresentate nell'art. 4, n. 25, cit. corrisponde al promotore
finanziario (ed anzi rappresenta la trasposizione di quest'ultima in ambito
europeo), deve soffermarsi l'attenzione sulla parte finale della disposizione
citata, laddove completa la descrizione delle attività che la Direttiva
riconosce essere tipiche dello "agente collegato". Quest'ultimo -
stabilisce la Direttiva per quanto qui interessa - "promuove i servizi di
investimento ... riceve e trasmette le istruzioni o gli ordini dei clienti ...
colloca strumenti finanziari ... presta consulenza ai clienti o potenziali
clienti rispetto a detti strumenti".
Il senso di questa disposizione non può essere disconosciuto: la Direttiva
2004/39/CE ammette che il promotore finanziario svolge un'attività di
consulenza rispetto agli strumenti finanziari che "promuove" per
conto dell'impresa preponente: si veda ancora la parte finale del riportato
art. 4, n. 25, dove, per l'appunto, la disposizione circoscrive l'ambito della
consulenza ivi accennata agli strumenti finanziari promossi o collocati dal
promotore finanziario per conto dell'impresa di investimento sotto la cui
"piena e incondizionata responsabilità" egli opera (9).
Si propone, dunque, ed è ineludibile, il problema di stabilire il rapporto tra
la consulenza cui fa riferimento l'art. 4, n. 25 cit. - che si è integralmente
riportato ancora una volta nella precedente nota 9 - ed il servizio di
"consulenza in materia di investimenti" di cui agli artt. 4, n. 4 ,
Direttiva cit., 15 lett. f, e 15-septies tuf: occorre, in particolare, chiarire
se si tratta della stessa attività o di due attività diverse e, in questo
secondo caso, chiarire in che cosa e perchè precisamente divergono queste due
attività.
Al riguardo non sembra significativo il rilievo secondo il quale il riferimento
alla "consulenza" contenuto nell'art. 4, n. 25, cit., non potrebbe
essere accostato al "servizio di consulenza" perchè, se così fosse,
il servizio sarebbe svolto dal promotore e non dall'impresa, come invece
dovrebbe essere trattandosi di attività riservata (10).
Contro questa obiezione può riproporsi quanto già si è avuto modo di osservare
in § 1: in quella sede si è rilevato che, quando il "servizio di
consulenza in materia di investimenti" è esercitato da "soggetti
abilitati", il promotore costituisce il mezzo attraverso il quale
l'intermediario può espletare fuori sede detto servizio. Ne segue che non vi
sono ostacoli normativi ad interpretare l'accenno ad un'attività di consulenza
svolta dal promotore, contenuto nell'art. 4, n. 25, come riferito al servizio di
consulenza di cui all'art. 15-septies tuf. Potrebbe, infatti, in questa
prospettiva, sostenersi che - allorché la Direttiva ha fatto cenno ad un
promotore che "presta consulenza ai clienti o potenziali clienti rispetto
a ... strumenti o servizi finanziari" (così art. 4, n. 25) - avrebbe in
pratica voluto significare solo che l'agente collegato/promotore finanziario
può espletare "fuori sede" il servizio di consulenza per conto
dell'intermediario per il quale opera.
Dunque, la chiave di interpretazione dell'art. 4, n. 25, Dir. N. 39, non corre
sulla linea indicata dall'autore prima ricordato.
Più precisamente, è vero che la "consulenza" cui fa riferimento
l'art. 4, n. 25, Direttiva n. 39, non corrisponde al servizio di consulenza ex
art. 1, comma 5, lett. f, tuf, ma ciò accade per motivi diversi da quelli
segnalati dall'autore cit. Esiste, dunque, effettivamente il problema di
stabilire se la "consulenza", cui fa riferimento l'art. 4, n. 25,
Direttiva n. 39, corrisponde o meno al "servizio di consulenza".
La risposta negativa a questo interrogativo, a ben vedere, non è difficile.
Essa, invero, diviene agevole se si tiene conto che il problema di distinguere
la consulenza quale servizio di investimenti autonomo e la consulenza
"generica" o "strumentale" non è affatto nuovo e già altri
paesi da tempo se lo sono posto e lo hanno risolto.
In particolare, sembra significativa, sotto tale profilo, la c.d. polarisation
rule, in vigore nel Regno Unito dal 1986, che, sia pure tra molte discussioni,
è transitata nel Financial Services and Markets Act emanato nel 2000. Secondo
questa regola un "indipendent financial advisory" si contraddistingue
per il fatto di svolgere a favore del cliente un servizio di consulenza di
marcata ampiezza sotto il profilo oggettivo; è richiesto, infatti, che il
consulente, nello svolgere il suo servizio, prenda in considerazione l'intero
mercato del prodotto di volta in volta rilevante (11). Al contrario, l'attività
consulenziale svolta - "prima o nel corso di" qualsiasi servizio di investimento
- dal promotore finanziario, dal tied agent, dallo "appointed
representative" ha, quale riferimento oggettivo, un ambito ridotto di
prodotti. Più precisamente, con questo secondo tipo di attività - che la stessa
Direttiva 2006/73/CE denomina "consulenza generica" (12) - si può
indirizzare il cliente solo verso i prodotti offerti dal preponente, vale a
dire, nel contesto italiano, verso i prodotti distribuiti dall'impresa di
investimento, dalla banca, a favore della quale il promotore svolge attività
fuori sede (v. artt. 305 311 tuf). Ed è proprio questa l'attività cui fa
riferimento l'art. 4, n. 25, dir. N. 39: in esso, infatti, si legge che la
consulenza prestata dal tied agent ha ad oggetto gli "strumenti finanziari
o i servizi finanziari" collocati per conto delle imprese di investimento
per cui opera. In altre parole, al pari di quanto avviene nella legislazione
britannica, anche la consulenza espletata dall'"agente collegato"
comunitario - ossia la "consulenza generica" o
"strumentale" - ha ad oggetto il ridotto paniere dei prodotti
distribuiti dal preponente.
Deve sottolinearsi che il criterio della "neutralità" del consulente,
sottinteso nella polarisation rule, è già presente nell'ordinamento italiano.
Dispone, infatti, l'art. 1202 del codice delle assicurazioni private che
"in relazione al contratto proposto, gli intermediari assicurativi
dichiarano al contraente: a) se forniscono consulenze fondate su una analisi
imparziale, dovendo in tal caso le proprie valutazioni fondarsi su un numero
sufficientemente ampio di contratti disponibili sul mercato, al fine di
consigliare il prodotto idoneo a soddisfare le richieste del contraente; b) se
propongono determinati prodotti in virtù di un obbligo contrattuale con una o
più imprese di assicurazione, dovendo in tal caso comunicare la denominazione
di tali imprese ..." (13).
Dunque, il legislatore italiano ha già stabilito che le "consulenze
fondate su analisi imparziali" si fondano "su un numero
sufficientemente ampio di contratti disponibili sul mercato".
Diviene, a questo punto, chiaro che la distinzione tra servizio di
"consulenza in materia di investimenti" e "consulenza
generica" non corre affatto sulla qualità, sull'approfondimento, sulla
professionalità della "raccomandazione", come pure taluno ha
ritenuto, quanto piuttosto sul quel criterio della "neutralità" su
cui in passato ha insistito la Consob.
Questa conclusione non è contraddetta dal considerando n. 81 della Dir.
2006/73/CE, secondo il quale "ai fini della direttiva 2004/39/CE, in
quanto la presente direttiva specifica che, ai fini della direttiva 2004/39/CE,
la consulenza in materia di investimenti è limitata alla consulenza in merito a
determinati strumenti finanziari". In particolare, il riferimento finale a
"determinati strumenti finanziari" quale potenziale del servizio di
consulenza non implica che il consulente possa essere tale anche se limita i
suoi consigli agli strumenti finanziari che colloca per conto del singolo
intermediario per il quale lavora. Un'indicazione del genere non si legge né
nella parte del considerando n. 81 appena riportata, né altrove. In realtà,
quando il considerando n. 81 avverte che "la consulenza in materia di
investimenti è limitata alla consulenza in merito a determinati strumenti
finanziari" ben può essere interpretato nel senso di esonerare il
consulente dall'obbligo di tener conto, nello svolgimento della sua attività di
tutti i prodotti esistenti in assoluto sul mercato. E in questa prospettiva non
detta un'indicazione diversa da quella proveniente dalla polarisation rule o
dall'art. 1202 cap, dal momento che entrambe queste regole impongono al
consulente indipendente di prestare attenzione, non già a tutti in assoluto i
prodotti esistenti sul mercato, ma solo a quelli "rilevanti" nella
fascia di mercato che interessa il cliente, ovvero a "un numero di
prodotti sufficientemente ampio" (v. ancora art. 1202 cap) (14).
Più precisamente, devono essere "neutrali", nel senso che devono
tenere conto di un paniere significativo di prodotti esistenti sul mercato a
prescindere dagli emittenti dei prodotti medesimi, sia il "consulente
finanziario" di cui all'art. 18-bis tuf, sia l'intermediario finanziario
abilitato allo svolgimento del servizio di investimenti di cui si parla.
Dunque, i tratti distintivi del servizio di consulenza in materia di
investimenti sono la neutralità del consulente e la sua capacità professionale
di saper orientare le scelte del cliente verso un paniere sufficientemente
ampio dei prodotti esistenti sul mercato finanziario in rapporto alle esigenze
del cliente.
A proposito del primo requisito - quello attinente alla neutralità del
consulente - si profila un potenziale, ma evidente conflitto di interessi
quando, in particolare, la consulenza sia offerta da un intermediario
finanziario. L'intermediario, infatti, sarà munito di un proprio paniere di
prodotti da collocare e, pertanto, sarà latore di un interesse tale da
proiettare serie ombre sulla sua effettiva neutralità nel momento in cui svolge
il servizio di consulenza. In questo caso il necessario requisito della
neutralità si traduce quanto meno in un onere di ragionevole motivazione
relativamente ai motivi specifici e gravi che possano avere indotto
l'intermediario consulente a ritenere maggiormente adatti per il cliente i prodotti
da lui collocati, rispetto a quelli della concorrenza di pari rischio.
3. La "raccomandazione personalizzata" e la sua disciplina - Nel
corso del precedente paragrafo si sono mossi passi importanti verso la
determinazione del contenuto del contratto di consulenza: invero, si è chiarito
che l'elemento distintivo del servizio di "consulenza in materia di
investimenti" è rappresentato dalla posizione di neutralità rivestita
dalla persona fisica o giuridica che svolge l'attività di consulenza. Come si è
anticipato, il rilevato carattere di neutralità incide sul contenuto del
contratto in esame e sulla prestazione del consulente: quest'ultimo, infatti, è
obbligato a sviluppare a favore del cliente "raccomandazioni
personalizzate" aventi ad oggetto gli investimenti maggiormente
"adeguati" per il cliente tra quelli di maggior rilievo esistenti sul
mercato finanziario in genere. In altre parole, colui che presta il servizio di
consulenza in materia di investimenti, previsto dall'art. 1, comma 5, lett. f,
tuf, non deve tener conto solo dei prodotti di maggior rilievo presenti sul
mercato domestico o europeo, ma deve piuttosto guardare al mercato globale
quale è quello proprio di questi anni.
L'esame del contenuto del contratto di consulenza non può, peraltro,
prescindere dalla nozione di "raccomandazione personalizzata":
quest'ultima, infatti, costituisce la prestazione tipica del contratto di
consulenza e la sua analisi è prodromica all'esame della responsabilità del
consulente medesimo, giusta l'interpretazione ormai invalsa dell'art. 1218
c.c., secondo la quale l'esistenza di un inadempimento del debitore non può
essere decifrata sul parametro dell'impossibilità assoluta ed oggettiva della
prestazione, secondo il tenore letterale dello stesso art. 1218 c.c., ma deve
essere di volta in volta ricavata prendendo le mosse dal contenuto della
prestazione in concreto esigibile dal creditore sulla base del contratto da cui
l'obbligazione medesima tra origine (15).
A proposito della nozione di "raccomandazione personalizzata" mette
conto avvertire immediatamente che non è affatto univoco il suo rapporto con il
servizio di consulenza in materia di investimenti. Al fine di chiarire questa
affermazione è utile tornare alla disposizione dedicata dal novellato testo unico
della finanza al servizio di consulenza. È sufficiente leggere la disposizione
medesima per rendersi conto di quanto essa sia insidiosa ed inaffidabile. Sulla
falsariga delle due Direttive Cee si legge, infatti, nel comma 5 septies, art.
1 tuf, che "per "consulenza in materia di investimenti" si
intende la prestazione di raccomandazioni personalizzate a un cliente, dietro
sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a una o
più operazioni relative ad un determinato strumento finanziario. La
raccomandazione è personalizzata quando è presentata come adatta per il cliente
o è basata sulla considerazione delle caratteristiche del cliente. Una
raccomandazione non è personalizzata se viene diffusa al pubblico mediante
canali di distribuzione".
In primo luogo, occorre guardarsi dall'errore di ritenere che la disposizione
appena riprodotta introduca effettivamente una "definizione
legislativa" secondo la rubrica dello stesso art. 1, cui pure accede.
Non è assolutamente il caso di riproporre in questa sede l'annoso tema delle
definizioni legislative, della loro rilevanza e delle loro implicazioni anche
di politica legislativa. È, invece, sufficiente ricordare che la definizione
legislativa, lungi dal rappresentare la "essenza" della cosa definita
secondo il paradigma aristotelico, mira, piuttosto, a porre le condizioni per
l'uso di un certo vocabolo, onde con ciò rinviare ad una data disciplina. Su
queste premesse, la dottrina ha posto in luce come l'interprete non debba mai
perdere di vista il senso storico-pratico delle nozioni giuridiche, nel senso
che l'interprete non deve mai perdere di vista la necessità di uno stretto
collegamento delle nozioni giuridiche medesime con l'esperienza pratica (16).
Se, sulla base di questi ormai acquisiti insegnamenti, si analizza il comma
5-septies sopra riportato, ci si avvede che esso non è in grado di dettare le
condizioni d'uso della locuzione "consulenza in materia di
investimenti"; al massimo si può convenire che la disposizione citata
detta una delle condizioni d'uso della locuzione "consulenza in materia di
investimenti". Più precisamente la disposizione non è in grado di (e,
forse, a ben vedere, neppure mira a) istituire una corrispondenza biunivoca tra
"consulenza in materia di investimenti" e "raccomandazioni
personalizzate". Una tale corrispondenza, infatti, è smentita
dall'esperienza e dall'analisi del sistema, le quali, al contrario, attestano
come sussistano casi di "raccomandazioni personalizzate" anche in
caso di "consulenza generica" e comunque anche al di fuori del
contratto di "consulenza in materia di investimenti".
Per comprendere questo aspetto - che è centrale non solo per ricostruire il
contenuto del contratto di "consulenza in materia di investimenti",
ma più in generale per cogliere le regole di fondo della prestazione dei
servizi di investimento alla stregua della nuova normativa - occorre prendere
le mosse dalla nozione di "raccomandazione personalizzata" delineata
nel comma 5 septies dell'art. 1 tuf. In questo caso, effettivamente ci troviamo
di fronte ad una disposizione che ha dettato le "condizioni d'uso"
della locuzione "raccomandazione personalizzata". Queste
"condizioni d'uso" si concretizzano, alla stregua del comma 5
septies,a ben vedere in due casi, che non necessariamente sono coincidenti:
questi due casi si verificano (a) quando la "raccomandazione" di
acquisto, di investimento "è presentata come adatta per il cliente",
(b) quando la "raccomandazione" medesima "è basata sulla
considerazione delle caratteristiche del cliente".
Mette conto soffermare l'attenzione sul caso in cui la "raccomandazione
... è presentata come adatta per il cliente". In proposito, deve prendersi
atto che, in linea di fatto, un'ipotesi del genere non è necessariamente
circoscritta al "servizio di consulenza in materia di investimenti"
(art. 15, lett. f, tuf), ma può aver luogo anche durante lo svolgimento del
servizio di collocamento (art. 15, lett. c e c bis, tuf), o, ad esempio,
durante il servizio di ricezione e trasmissione ordini, nel caso in cui
l'iniziativa per la prestazione del servizio non è assunta dal cliente, ma
dall'intermediario (arg. ex art. 43, lett. b, reg. consob 29 ottobre 2007, n.
16190). È l'ipotesi, in altre parole, che si determina quando il cliente è
contattato dal promotore, ovvero quando al cliente - in una dipendenza della
banca - è presentato uno strumento finanziario perché ne ordini l'acquisto.
In questa ipotesi non può ragionevolmente negarsi l'esistenza del requisito
della "personalizzazione", ossia della caratura della
"raccomandazione", dell'invito a sottoscrivere il titolo, sul singolo
cliente appositamente contattato. In tal senso, d'altra parte, chiaramente
depone lo stesso comma 5 septies, art. 1, tuf, allorché, sempre sulla falsariga
della normativa comunitaria, esclude che esista il requisito della
"personalizzazione" quando la raccomandazione è "diffusa al
pubblico", ossia ad una massa indistinta di potenziali clienti,
circostanza, questa, che certamente non si verifica allorché l'invito
all'acquisto, la promozione del titolo abbiano luogo nel corso di un colloquio
diretto tra il singolo cliente e l'intermediario.
Deve, peraltro, aggiungersi che la necessità di intravedere una
"raccomandazione personalizzata" in ogni caso in cui l'intermediario
promuova un singolo strumento finanziario presso un cliente, invitandolo
all'acquisto dello strumento medesimo, non è legata solo al filo, solido ma
sottile, della precisazione offerta dall'ultima parte del comma 5 septies,
allorché esclude che la raccomandazione "diffusa al pubblico" rientri
nella nozione di "raccomandazione personalizzata".
Alla base della suddetta affermazione, infatti, vi è anche e soprattutto la
giuridica necessità secondo la quale ogni invito all'acquisto di un dato
strumento finanziario deve essere presentato come "adatto" per il
cliente cui è rivolto a prescindere dal servizio all'interno del quale questo
invito si verifica in concreto.
Sul punto occorre essere molto chiari: quando prestano servizi di investimento
al di fuori del servizio di consulenza ex art. 15, lett. f, gli intermediari
finanziari sono chiamati a prendere una decisione imprenditoriale dalle
notevoli ricadute sul piano operativo, di politica commerciale, e sul piano
giuridico: o ci si accontenta di "raccomandazioni" impersonalmente e
genericamente dirette al "pubblico", vale a dire ad una platea
indistinta di risparmiatori, ovvero si decide di procedere (anche) ad
"inviti" all'acquisto rivolti ai singoli clienti, attraverso un
contatto diretto tra detti singoli clienti ed il promotore o l'intermediario.
In questo secondo caso, ossia se si preferisce "andare" sul singolo
cliente a collocare un determinato strumento finanziario, non si può, però,
prescindere dalle specifiche caratteristiche di detto cliente, dai suoi
obiettivi di investimento, dalla sua esperienza ecc. E ciò - si ripete - anche
al di fuori della prestazione dei servizi di consulenza e di gestione.
Occorre guardarsi dall'errore di ritenere che l'alternativa appena delineata
sia il frutto di un'opzione interpretativa più o meno forzata. Al contrario, la
necessità di una caratura siffatta è imposta dal "criterio generale"
dettato dall'art. 21, lett. a, tuf, per "la prestazione dei servizi e
delle attività di investimento e accessori".
Questa norma, benché talora dimenticata, rappresenta pur sempre la regola
primaria per la prestazione di tutti i servizi di investimento e di tutti i
servizi accessori, nessuno escluso. Essa, peraltro, non sembra aver ancora
ricevuto un'interpretazione in grado di valorizzarne le potenzialità.
Invero, della disposizione richiamata è invalsa un'interpretazione che, a ben
vedere, tende a ridimensionare la portata del suo tenore letterale, nel senso
che si afferma che la disposizione medesima non avrebbe, in definitiva, un
significato diverso da quello generalmente attribuito alle clausole generali
più utilizzate nel codice civile e segnatamente la clausola di buona fede, la
quale già prevedrebbe obblighi di informazione e di salvaguardia degli
interessi della controparte analoghi a quelli disposti a carico dei
"soggetti abilitati" dall'art. 21, lett. a, tuf (17).
Sennonché, questa interpretazione è insoddisfacente sotto più profili.
Innanzi tutto, l'interpretazione qui accennata non tiene conto dei termini nei
quali gli obblighi di informazione e di salvaguardia della controparte sono
declinati nell'ambito della disciplina generale dei contratti. In particolare,
non si tiene conto, per quanto riguarda, ad esempio, gli obblighi di
salvaguardia degli interessi della controparte, che un obbligo di questo tipo,
quando è desunto dalla clausola di buona fede, non si specifica in un obbligo
della controparte di perseguire in modo articolato e programmatico gli
interessi della controparte. Al contrario, quando dalle declamazioni si passi
all'esame della law in action, ossia delle regole operative in concreto
ricavate dalla clausola di buona fede, ci si rende conto che essa è utilizzata
solo al limitato fine di imporre ad una parte di non compromettere
ingiustamente gli interessi della controparte, sempre che di detti interessi
abbia consapevolezza o non possa ragionevolmente non avere una tale
consapevolezza in rapporto al tipo di contratto concluso. Peraltro, questo tipo
di intervento di una parte a salvaguardia degli interessi dell'altra non è
imposto sempre e comunque, ma è condizionato alla espressa circostanza che la
salvaguardia di detti interessi della controparte non sia eccessivamente
dispendiosa per l'altro contraente.
Una sintesi in questo senso della giurisprudenza assolutamente dominante in
materia non è necessaria in questa sede, dal momento che è già stata fatta
dalla dottrina più autorevole, che ha osservato come, al di là delle
declamazioni, la clausola di buona fede interviene su questioni di dettaglio
del regolamento contrattuale (18). In altre parole - ed è questo che ora
interessa - la clausola di buona fede nelle sue concrete applicazioni non
altera le regole e gli equilibri di fondo che animano il codice, che vogliono
ciascuna parte sovrana nel perseguimento e nella cura dei propri interessi, con
conseguente assunzione delle relative responsabilità.
Qui, piuttosto, interessa sottolineare come una prospettiva assolutamente
diversa da quella appena riassunta si apre solo che si tenga conto del mero
tenore letterale dell'art. 21, lett. a, tuf, il quale, anzi, sotto tale profilo
è stato reso ancor più esplicito dalla novella recentemente intervenuta.
Dispone ora, infatti, l'art. 21 lett. a, tuf, che "nella prestazione dei
servizi e delle attività di investimento e accessori i soggetti abilitati
devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, per servire al
meglio l'interesse dei clienti e per l'integrità dei mercati".
È evidente la distanza che separa l'obbligo di non compromettere
ingiustificatamente l'interesse della controparte desunto dalla clausola
generale di buona fede e l'obbligo dei "soggetti abilitati" di
"servire al meglio l'interesse dei clienti". L'art. 21, lett. a, tuf,
impone ad una parte di un contratto, non già di non danneggiare senza motivo la
controparte, ma di perseguire deliberatamente ed esclusivamente gli interessi
della controparte. Come ha già in parte intuito la giurisprudenza, il vero
contenuto peculiare del "contratto relativo alla prestazione dei servizi
di investimento", cui fa riferimento l'art. 23 tuf, è proprio l'obbligo
indiscriminato imposto all'intermediario di "servire al meglio l'interesse
dei clienti", di cui probabilmente non v'è traccia negli altri contratti,
né in quelli conclusi nel mercato in genere, né in quelli conclusi in altri
settori del mercato finanziario, quali, ad esempio, i contratti bancari.
Proprio il confronto con questi ultimi è particolarmente utile perché rende
ragione, ad un tempo, tanto della specificità dei contratti posti in essere per
lo svolgimento dei servizi di investimento, quanto delle differenze tra questi
contratti e quelli conclusi nell'esercizio del credito.
Nei contratti bancari le asimmetrie informative sono a carico della banca, che
ignora sia le reali condizioni economiche dell'imprenditore finanziato, sia le
reali intenzioni che l'imprenditore ha circa l'utilizzazione del finanziamento
ricevuto: è per questo motivo che nella normale attività creditizia alla banca
non sono imposti dalla legge specifici obblighi di informazione e salvaguardia
degli interessi della controparte. A tal fine, infatti, nei contratti bancari
più diffusi è sufficiente la clausola generale di buona fede, che, ad esempio,
impone alla banca di non recedere senza congruo preavviso e senza motivo dal rapporto.
Al contrario, nei contratti relativi allo svolgimento dei servizi di
investimento l'asimmetria informativa - pesante ed incolmabile: non a caso si
parla di mercati incompleti per definizione - è a carico del risparmiatore, che
per di più, a differenza della banca nel caso dei contratti credito, non ha
neppure alcun tipo di expertise per monitorare in modo sistematico e razionale
l'andamento del suo investimento.
Di qui la ratio di fondo dell'art. 21, lett. a, tuf, come pure dell'art. 191
della Direttiva 2004/39/CE, secondo il quale "le imprese di investimento,
quando prestano servizi di investimento e/o, se del caso, servizi accessori ai
clienti, [agiscono] in modo onesto, equo e professionale, per servire al meglio
gli interessi dei loro clienti". Di qui - potrebbe aggiungersi - la
particolare enfasi presente nella normativa di settore, ed acuitasi con la
nuova disciplina, verso il conflitto di interessi.
Lo specifico obbligo di perseguire l'interesse del cliente, posto a carico
della sua controparte contrattuale, è rafforzato dall'obbligo, pure posto a
carico dei "soggetti abilitati", di comportarsi con diligenza,
correttezza e trasparenza. Questo riferimento a "diligenza, correttezza e
trasparenza" non integra obblighi ulteriori a sé stanti, ma
"diligenza, correttezza e trasparenza", giusta il significato proprio
delle parole usate dal legislatore secondo la connessione di esse, sono
funzionali al migliore perseguimento dell'interesse del cliente (19).
Questa interpretazione dell'art. 21 lett. a, tuf, (e, si ripete, dell'art. 191,
dir. N. 39) - volta a sottolineare e a rendere operativo l'obbligo degli
intermediari di "servire al meglio gli interessi dei clienti" - non
può certamente essere qui approfondita. In questa sede può solo aggiungersi che
siffatta interpretazione è coerente col modello che rappresenta il codice
genetico della normativa sui servizi di investimento, vale a dire il modello
economico-giuridico della agency (20), in base al quale "the agent is a
fiduciary", ossia "one who acts primarily for the benefit of
another" (21).
Discorso analogo vale per la disclosure delle informazioni: l'impostazione
dalla quale muove il codice civile è di fatto in linea con il rilievo secondo
il quale l'informazione è bene costoso e di difficile acquisizione (22), con la
conseguenza che di regola essa è trasferita alla controparte solo in casi
eccezionali e sempre sul presupposto che ciò non rechi pregiudizio alla parte
maggiormente informata. Così, nella prospettiva del codice i doveri di
informazione sono circoscritti alle cause di invalidità e alle eventuali cause
di inidoneità del contratto a soddisfare gli interessi che inducono la
controparte al contratto medesimo, sempre che - si ripete - detti interessi
siano ragionevolmente conoscibili dalla controparte e ciò non si risolva in un
danno specifico della parte maggiormente informata (23).
Di ben altro spessore l'obbligo informativo posto a carico dei "soggetti
abilitati" nell'ambito dello svolgimento dei servizi di investimento. La
netta disposizione contenuta nella seconda parte della lett. b dello stesso
art. 21 ("i soggetti abilitati devono ... operare in modo che [i clienti]
siano sempre adeguatamente informati") è addirittura rafforzata dall'art.
193, Direttiva 2004/39/CE, il quale dispone che "ai clienti o potenziali
clienti vengono fornite in una forma comprensibile informazioni ... sugli
strumenti finanziari e sulle strategie di investimento proposte ... cosicché
essi possano ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento
e del tipo specifico di strumenti finanziari che vengono loro proposti nonché i
rischi ad essi connessi e, di conseguenza, possano prendere le decisioni in
materia di investimenti con cognizione di causa". In particolare, occorre
porre in luce come la disposizione appena riportata istituisce una diretta ed
esplicita relazione consequenziale tra l'informazione data al cliente e la
successiva decisione di investimento di quest'ultimo, cosicché, qualora
l'informazione non sia tale da far "ragionevolmente comprendere la natura
... del tipo specifico di strumenti finanziari che vengono loro proposti nonché
i rischi ad essi connessi", deve escludersi che il cliente abbia assunto
quella "decisione con cognizione di causa" richiesta dalla Direttiva:
il ché equivale a dire che deve ritenersi insussistente una decisione di
investimento del cliente che possa essere ritenuta giuridicamente rilevante.
È, dunque, evidente anche in questo secondo caso la distanza che separa
l'impianto codicistico dalle norme di settore interne e comunitarie, che si
sono richiamate: lì il difetto di informazione di una parte a favore dell'altra
si traduce nel risarcimento dell'"interesse negativo" (art. 1337
c.c.), qui il difetto di informazione esclude un valido consenso del cliente
all'investimento.
Questa distanza, questa differente dimensione delle regole che disciplinano il
contratto concluso in materia di investimenti rispetto a quelle proprie del
codice civile non deve stupire. È risaputo che l'impianto codicistico
presuppone parti uguali e di pari forza contrattuale, entrambe perfettamente
informate - o in grado di acquisire l'informazione necessaria sol che siano
diligenti nel curare i loro interessi - sull'oggetto del contratto e sul
contenuto dello stesso che comunque possono concorrere in pari misura a
determinare (v. art. 1326 u.c.). E' un impianto che chiaramente riflette un
mercato, una concezione economica improntata all'equilibrio generale
Walrasiano, e alla lettura che di esso hanno dato Arrow e Debreu, dove le
preferenze di ciascun soggetto sono chiaramente ordinate su scale decrescenti
dominate con precisione dall'interessato grazie alle informazioni
spontaneamente prodotte dal mercato, cui ciascuno può liberamente accedere
senza costi particolari (24).
La normativa del mercato finanziario, anche più di quella relativa ai rapporti
tra "professionisti" e consumatori, presuppone, invece, una diversa
concezione del mercato, dominata da un'intensa e pressoché incolmabile
asimmetria informativa a carico del risparmiatore. Tale diversa impostazione
non rimane senza conseguenze sul piano giuridico: infatti, il diverso motivo
ispiratore di fondo tra regole del codice civile sul contratto e realtà del
mercato finanziario è talmente dirompente e marcato che le prime non possono automaticamente
applicarsi al mercato finanziario e ai contratti ivi conclusi (25).
4. "Raccomandazione personalizzata" e servizi di investimento - Nel
precedente paragrafo si sono riesaminati, nei limiti consentiti dalla presente
occasione, i "criteri generali" che debbono guidare gli intermediari
quando propongono ad un risparmiatore l'acquisto di un determinato strumento
finanziario, vale a dire quando procedono ad una "raccomandazione
personalizzata" nei confronti di un cliente.
Il riesame così condotto si è reso necessario per comprendere le intrinseche
caratteristiche della "raccomandazione personalizzata" e per
comprendere, altresì, come essa non sia necessariamente connessa al servizio e
al contratto di consulenza in materia di investimenti, ma sussista ogni
qualvolta l'intermediario solleciti l'investitore ad indirizzare il suo
risparmio verso un determinato strumento finanziario, presentando detto
investimento come "adatto", come vantaggioso per il cliente.
La soluzione proposta è coerente con l'impianto normativo dei servizi di
investimento dettato tanto a livello interno, quanto a livello comunitario.
Essa, infatti, come si è mostrato nel precedente paragrafo, è assolutamente
coerente con le lett. a e b dell'art. 21 tuf.: la necessità che, ai sensi
dell'art. 21 cit., il "soggetto abilitato" persegua l'interesse del
risparmiatore quando svolge qualsiasi servizio di investimento o accessorio fa
sì che il "soggetto abilitato" medesimo - nell'ambito di uno
qualsiasi di detti servizi - non possa assolutamente invitare un risparmiatore
ad acquistare uno strumento finanziario se non ritiene, ragionevolmente e
motivatamente, detto acquisto funzionale "al meglio" (v. ancora art.
21, lett. a, cit.) per il perseguimento dell'interesse del singolo cliente
destinatario dell'invito.
Non solo: non bisogna dimenticare che l'art. 21 tuf e l'art. 19 dir. N. 39
impongono esplicitamente che l'intermediario agisca con diligenza e correttezza
quando agisce "per il meglio" del suo cliente. Nello scomporre queste
disposizioni nelle pagine precedenti, si è osservato che l'obbligo di agire per
"il meglio" si traduce nella necessità che l'intermediario sottoponga
al cliente - sempre ed in ogni occasione - prodotti finanziari dei quali abbia
accertato la coerenza con gli interessi del cliente stesso. Diligenza e
correttezza non rimangono estranee a detto processo. Esse, infatti, incidono
sulle modalità con le quali l'intermediario acquisisce consapevolezza che un
dato prodotto è coerente, è adatto agli interessi del singolo cliente, cui è
presentato. Più precisamente, il "soggetto abilitato" deve acquisire
tale consapevolezza (circa la congruità dello strumento finanziario proposto al
risparmiatore rispetto al risparmiatore stesso) con "diligenza". La
diligenza, infatti, raccomandata anche dallo stesso art. 21 lett. a tuf,
rappresenta la qualità tipica della condotta di qualsiasi debitore e nel caso
dei servizi di investimento si specifica - secondo quanto osservato da DI MAJO
fin dal 1993 e ribadito anche dalla giurisprudenza recente - in un particolare
tipo di diligenza professionale (art. 11762 c.c.). Quest'ultima impone al
debitore (nella specie, l'intermediario che invita il risparmiatore ad
acquistare un determinato strumento finanziario) di adempiere alla sua prestazione
impiegando quei mezzi, quelle nozioni tecniche, quella prudenza, che, nello
specifico settore professionale di riferimento, sono riconosciute
oggettivamente utili per la soddisfazione dell'interesse del creditore (nella
specie, il risparmiatore) e per evitare a quest'ultimo possibili danni (v.
recentemente Cass. 15 febbraio 2007, n. 2462, in Foro it., Rep. 2007, voce
obbligazioni in genere, n. 36): orbene, nello specifico settore di riferimento
qui in esame, vale a dire il mercato finanziario, le nozioni tecniche, i mezzi
generalmente utilizzati e l'esperienza sono coerenti nel dimostrare che
l'intermediario non può pretendere di servire al meglio gli interessi del
risparmiatore senza conoscerne gli obiettivi di investimento, l'esperienza in
materia finanziaria, le caratteristiche anche personali (v. art. 39, comma 2,
lett. c, reg. consob n. 16190/07).
I risultati cui è pervenuta l'analisi fin qui condotta non possono essere
sottovalutati. Invero, la compiuta ricognizione del significato e delle implicazioni
giuridiche della nozione di "raccomandazione personalizzata" ha posto
in luce che tale nozione, con le sue ricadute in termini di diligenza
professionale dei "soggetti abilitati", deve intravedersi ogni volta
che un "soggetto abilitato" presenti un determinato investimento ad
un risparmiatore come "adatto" al risparmiatore medesimo. E ciò a
prescindere dal fatto che detta raccomandazione abbia luogo nell'ambito del
servizio di consulenza di cui alla lett. f dell'art. 15, tuf, oppure in
occasione dello svolgimento di altro servizio di investimento.
Si è già avuto modo di accennare alla circostanza che tale conclusione, lungi
dall'essere eccentrica, è anzi coerente con il sistema normativo susseguente
alla Mifid.
È opportuno verificare con attenzione questo rilievo.
A tal fine è utile prendere le mosse dal comma 5 septies dell'art. 1 tuf.
Secondo tale comma "per "consulenza in materia di investimenti"
si intende la prestazione di raccomandazioni personalizzate a un cliente,
dietro sua richiesta o per iniziativa del prestatore del servizio, riguardo a
una o più operazioni relative ad un determinato strumento finanziario. La
raccomandazione è personalizzata quando è presentata come adatta per il cliente
o è basata sulla considerazione delle caratteristiche del cliente. Una
raccomandazione non è personalizzata se viene diffusa al pubblico mediante
canali di distribuzione". Si è già detto come tale disposizione non
contenga alcun elemento testuale tale da imporre una corrispondenza biunivoca e
necessaria tra servizio di "consulenza in materia di investimenti" di
cui all'art. 15, lett. f, tuf, e "raccomandazioni personalizzate". La
disposizione, piuttosto, delinea il contenuto del contratto di consulenza, nel
senso che esso ha ad oggetto la dazione di "raccomandazioni
personalizzate", ma da essa non si ricava alcunché tale da giustificare
l'illazione che possano esistere "raccomandazioni personalizzate"
solo previa conclusione di un contratto di consulenza e all'interno dello
stesso.
Sotto tale profilo la specificità del contratto di consulenza va cercata
altrove, e precisamente nel fatto che, per effetto di tale contratto, la
dazione di "raccomandazione personalizzate" è obbligatoria. È
corretto, così, affermare che il contratto de quo consiste nella dazione di
"raccomandazioni personalizzate" e che - in base a quanto si è
rilevato supra in § 2 - queste "raccomandazioni personalizzate"
debbono necessariamente spaziare su tutti i prodotti esistenti sul mercato che
possano essere "adatti" alle caratteristiche del risparmiatore.
Ciò, tuttavia, - ed è questo il punto che preme ora sottolineare - non equivale
ad affermare che "raccomandazioni personalizzate" non possano aver
luogo anche in ambiti contrattuali diversi, vale a dire anche durante lo
svolgimento di servizi di investimento o accessori diversi dalla consulenza,
allorché l'intermediario presenti un determinato prodotto ad un singolo
cliente. In questo secondo caso, le "raccomandazioni personalizzate"
non saranno, però, obbligatorie per il "soggetto abilitato", ma
conseguiranno da una precisa scelta imprenditoriale e commerciale
dell'intermediario stesso, il quale - poiché versa in un rapporto diverso da
quello di consulenza - potrà "raccomandare" al cliente strumenti
finanziari tratti da una platea più ristretta di quella - per definizione,
particolarmente ampia - che caratterizza il servizio di consulenza.
Peraltro, nel secondo caso, ossia nel caso di "raccomandazione
personalizzata" elargita al di fuori del servizio di consulenza, non potrà
non applicarsi la disciplina propria della "raccomandazione
personalizzata" stessa, che si è cercato di rappresentare in questo
paragrafo e nel precedente. Più precisamente, anche se prestata al di fuori del
servizio di consulenza, la "raccomandazione personalizzata" dovrà
aderire al destinatario della stessa, ai suoi obiettivi, ai suoi interessi in
applicazione delle norme di legge che si sono passate in rassegna nel
precedente paragrafo.
Mette conto avvertire come lo scenario qui delineato è perfettamente coerente
con quello che risulta dal considerando n. 81 della Direttiva 2006/73/CE. Si
legge in tale considerando che "se l'impresa di investimento fornisce una
consulenza generica ad un cliente in merito ad un tipo di strumento finanziario
che essa presenta come adatto per tale cliente, considerate le sue particolari
caratteristiche, e tale consulenza non è in realtà adeguata per tale cliente o
non è basata sulla considerazione delle sue caratteristiche, in funzione delle
circostanze di ciascun caso, è probabile che tale impresa violi l'articolo 19,
paragrafo 1 o 2, della direttiva 2004/39/CE. In particolare, è probabile che
l'impresa che fornisce ad un cliente tale consulenza violi l'obbligo di cui
all'articolo 19, paragrafo 1, di agire in modo onesto, equo e professionale per
servire al meglio gli interessi dei suoi clienti".
È agevole rilevare come il riportato considerando n. 81 confermi i passaggi
principali dell'analisi qui svolta:
(a) in detto considerando, infatti, la presentazione di "un tipo di strumento
finanziario ... come adatto per un cliente" (vale a dire quello che
nell'ordinamento interno è l'elemento caratterizzante della
"raccomandazione personalizzata": v. ancora una volta il comma 5
septies dell'art. 1 tuf) non è ritenuta espressione esclusiva del servizio di
consulenza in materia di investimenti. Al contrario, la suddetta presentazione
è esplicitamente associata alla "consulenza generica", che, come si è
ricordato sopra, secondo l'impianto comunitario può accedere a qualsiasi
servizio di investimenti (v. esplicitamente in tal senso la parte finale del
considerando n. 82 della Direttiva ult. cit.);
(b) il considerando n. 81, inoltre, espressamente presuppone che la
presentazione di "un tipo di strumento finanziario ... come adatto per un
cliente" sia coordinata con "le ... particolari caratteristiche"
del cliente stesso "in funzione delle circostanze di ciascun caso". E
dunque il considerando n. 81 della direttiva 2006/73/CE presuppone che
nell'ambito della "consulenza generica" si tenga conto delle
specifiche caratteristiche del cliente destinatario di detta "consulenza
generica", atteso che la stessa deve essere modulata "in funzione
delle circostanze di ciascun caso";
(c) ed ancora, il predetto considerando prende espressamente in esame l'ipotesi
in cui lo strumento finanziario presentato all'investitore come adatto a lui
non sia in realtà congruo rispetto alle caratteristiche specifiche
dell'investitore medesimo. Tale ipotesi - ed è questo l'aspetto di maggiore
interesse - è espressamente qualificata dalla Direttiva in esame come una
violazione dello "l'articolo 19, paragrafo 1 o 2, della direttiva
2004/39/CE". E l'art. 19, paragrafo 1 della Direttiva 2004/39/CE, impone,
come si ricorderà, che "le imprese di investimento, quando prestano
servizi di investimento e/o, se del caso, servizi accessori ai clienti,
agiscano in modo onesto, equo e professionale, per servire al meglio gli
interessi dei loro clienti".
Ne segue, dunque, la conferma per tabulas di quanto qui sostenuto, vale a dire
che non bisogna farsi ingannare da letture affrettate dell'art. 15- septies,
tuf: la dazione di "raccomandazioni personalizzate" può avvenire al
di fuori del servizio di consulenza di cui all'art. 15 tuf, lett. f, e, in ogni
caso, la "raccomandazione personalizzata" deve essere elaborata in
funzione dell'interesse del singolo cliente, il quale interesse deve essere
individuato, non in astratto o genericamente, ma con "diligenza" (v.
ancora art. 21 lett. a, tuf), vale a dire in funzione delle caratteristiche specifiche
dell'investitore destinatario della "raccomandazione", "in
funzione delle circostanze di ciascun caso", recita la Direttiva
comunitaria del 2006.
Può essere, infine, formulata un'osservazione ulteriore, relativa al metodo
adottato per pervenire alle conclusioni sopra riassunte. A ben vedere, nelle
pagine precedenti una determinata prestazione concreta (la
"raccomandazione personalizzata") è stata isolata nei suoi elementi
caratteristici e negli interessi che essa mira a realizzare nell'ambito del contratto
(o servizio) in cui essa sembra assumere giuridica rilevanza (la
"consulenza in materia di investimenti"); dopo di che si è constatato
che essa di fatto può aver luogo anche all'interno di contratti e servizi
diversi dalla consulenza e si è aggiunto che, anche in questi diversi
contratti, essa conserva la disciplina giuridica sua propria.
Per tale via, nel caso qui in esame delle "raccomandazioni
personalizzate" e del servizio di consulenza, si è applicato lo schema
ricostruttivo ed interpretativo maggiormente accreditato presso la dottrina
civilistica recente, vale a dire il c.d. metodo "tipologico".
Infatti, assunta a modello la prestazione tipicamente presente nel contratto di
consulenza, se ne è riconosciuta la presenza anche in contratti e servizi di
investimento diversi e si sono estesi a queste fattispecie i tratti peculiari
rilevanti della relativa disciplina (26).
Il risultato complessivo attinto da tale processo interpretativo è che occorre
diradarsi dalle insidie esibite dal quadro normativo introdotto a seguito del
recepimento della Mifid. Più precisamente, occorre guardarsi da facili
semplificazioni, secondo le quali, al di fuori dei servizi di consulenza e di
gestione, gli intermediari dovrebbero preoccuparsi esclusivamente del profilo
della c.d. "appropriatezza", quale è configurata dall'art. 42 del
nuovo regolamento intermediari (del. Consob 29 ottobre 2007, n. 16190), secondo
cui "nella prestazione dei servizi di investimento diversi dalla
consulenza in materia di investimenti e dalla gestione di portafogli, e sulla
base delle informazioni di cui all'articolo 41, gli intermediari verificano che
il cliente abbia il livello di esperienza e conoscenza necessario per
comprendere i rischi che lo strumento o il servizio di investimento offerto o
richiesto comporta".
Le considerazioni svolte nei precedenti paragrafi avvertono che le cose non
stanno così: ogni qualvolta che gli intermediari propongono un prodotto ad un
risparmiatore ricorre la fattispecie della "raccomandazione personalizzata",
rispetto alla quale gli intermediari debbono procedere ad un'attenta e
diligente comparazione delle singole caratteristiche del concreto prodotto
offerto e lo specifico profilo del cliente destinatario dell'invito
all'acquisto.
5. La forma - Successivamente alla modificazione del testo unico della finanza
ad opera del d. lgs. 17 settembre 2006, n. 164, l'art. 23 del medesimo testo
unico dispone che "i contratti relativi alla prestazione dei servizi di
investimento, escluso il servizio di cui all'articolo 1, comma 5, lettera f),
e, se previsto, i contratti relativi alla prestazione dei servizi accessori
sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti". Questa
disposizione è stata successivamente confermata dal reg. intermediari n. 16190
del 29 ottobre 2007, che, nel primo comma dell'art. 37, ha stabilito che
"gli intermediari forniscono a clienti al dettaglio i propri servizi di
investimento, diversi dalla consulenza in materia di investimenti, sulla base
di un apposito contratto scritto; una copia di tale contratto è consegnata al
cliente".
Le disposizioni appena richiamate non sono il risultato di una scelta
autonomamente condotta dal legislatore italiano. L'art. 39 della Direttiva
2006/73/CE stabilisce, infatti, che "gli Stati membri prescrivono
all'impresa di investimento che fornisce servizi di investimento diversi dalla
consulenza in materia di investimenti ad un nuovo cliente al dettaglio per la
prima volta dopo la data di applicazione della presente direttiva di concludere
un accordo di base scritto, su carta o altro supporto durevole, con il cliente,
in cui vengano fissati i diritti e gli obblighi essenziali dell'impresa e del
cliente" (27).
Il risultato di questo apparato normativo è che non sussiste un obbligo di
forma scritta per quanto riguarda il contratto di consulenza in materia di
investimenti.
Con questa riforma l'art. 23 tuf si conferma disposizione problematica e di
interpretazione controversa. Come noto, esso è già oggetto di polemiche a causa
dell'interpretazione restrittiva che gli è stata data da chi ha ritenuto che la
locuzione "contratti relativi alla prestazione dei servizi di
investimento" potesse essere interpretata in senso fortemente restrittivo
e l'obbligo di forma scritta potesse essere, pertanto, circoscritto al solo
"contratto quadro", ossia al contratto stipulato dal cliente e
dall'intermediario finanziario all'inizio del rapporto, con il quale vengono
stabiliti in via generale i servizi di investimento che l'intermediario svolgerà
a favore dell'investitore, i costi, le modalità in cui avranno luogo le
comunicazione tra le parti durante il rapporto, le modalità con le quali
saranno impartiti gli ordini ecc., secondo lo schema ora sostanzialmente
ribadito dall'art. 37 del nuovo regolamento intermediari.
Questo orientamento restrittivo ha sortito l'effetto concreto di legittimare la
pratica estremamente discutibile degli ordini impartiti oralmente, ossia senza
che la disposizione del cliente venisse raccolta su un documento sottoscritto
dal cliente medesimo o venisse registrata su un apposito supporto fonico che
consentisse la successiva verifica dell'effettivo contenuto dell'ordine. A
favore di tale orientamento si sono invocate esigenze di celerità nella
concreta operatività del mercato. Tuttavia, l'inconsistenza di questo argomento
si commenta da sola in un'epoca in cui le comunicazioni a distanza possono aver
luogo in modo estremamente facilitato e di agevole tracciabilità grazie
all'informatica e agli apparati per la registrazione delle conversazioni
telefoniche.
Queste polemiche sono qui evocate perché esse hanno consentito di chiarire la
rilevanza della forma scritta nell'epoca attuale. Più precisamente, l'idea di
circoscrivere la forma scritta a causa di asserite esigenze di funzionalità del
mercato, è stata severamente criticata da chi, al contrario, ha osservato che
l'adozione della forma scritta e la sua generalizzazione è assolutamente
coerente con l'odierna configurazione del mercato, quale insieme di regole e
procedure volte anche a rendere trasparente e a controllare l'azione degli
attori del mercato medesimo così rendendolo credibile e, dunque, efficiente:
tra queste regole di trasparenza, di controllo e di strutturazione del mercato
vi è anche la forma scritta (28).
Questi insegnamenti vengono ora ricordati perché non sono rimasti privi di
riscontro nell'ordinamento. Ve ne è traccia non soltanto nel generalizzato
onere - posto a carico delle imprese - di conclusione in forma scritta dei
contratti conclusi nel mercato finanziario in genere, ma anche e soprattutto in
talune norme del codice del consumo, suscettibili di incidere sul contratto e
sul rapporto di consulenza qualora esso fosse effettivamente posto in essere
oralmente.
In particolare, qui si fa riferimento all'art. 362, lett. c, del codice del
consumo, secondo il quale, "sono nulle le clausole che, quantunque oggetto
di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di ... c) prevedere l'adesione
del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la
possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto".
Al di là del suo contenuto letterale, la disposizione appena riportata lascia
chiaramente intravedere l'assoluto disfavore dell'ordinamento verso contratti,
le cui clausole non siano state in anticipo conoscibili e conosciute dal
consumatore, al quale è assolutamente comparabile la posizione del
risparmiatore a causa della condivisa posizione di ridotta informazione sui
termini e sull'oggetto dei contratti conclusi sul mercato.
Ne segue che l'esenzione del contratto di consulenza dalla forma scritta, in
luogo di essere un elemento di vantaggio per le imprese di investimento o per i
consulenti finanziari di cui all'art. 18 bis tuf, rischia di risolversi in un
autentico boomerang per costoro. Infatti, i "professionisti" appena
citati corrono il serio rischio di non poter far valere contro i risparmiatori
proprio quelle clausole ritenute di maggior favore dai professionisti medesimi,
a prescindere dal fatto, poi, che dette clausole siano qualificabili come
"vessatorie" o meno ai sensi dell'art. 33 cod. cons.
Sul punto occorre chiarire che nella fattispecie non si determinerebbe tanto un
problema di nullità della clausola: a ben vedere, la nullità sancita dall'art.
362 cod. cons. non colpisce la clausola di fatto non conosciuta dall'aderente,
ma la diversa clausola con la quale viene recepita nel contratto concluso con
il consumatore una regola il cui contenuto non sia stato in precedenza reso
disponibile al consumatore medesimo.
Piuttosto, nella fattispecie si profila un problema di efficacia del consenso
del consumatore. Per chiarire questo aspetto è opportuno riepilogare ancora una
volta i termini della questione che qui si prende in esame: alla stregua della
normativa di settore, il contratto di consulenza può essere concluso senza
particolari problemi di forma. In assenza di un documento scritto ci si chiede
se è opponibile al risparmiatore una qualsiasi clausola che egli di fatto non
abbia avuto modo di conoscere prima della conclusione del contratto o prima
dell'effettuazione della consulenza in materia di investimenti.
La risposta negativa a questa domanda, a ben vedere, non trae spunto solo dal
riportato art. 36 cod. cons., che, come già rilevato, chiaramente tende a
garantire che il consumatore possa esprimere un consenso al complessivo
contenuto del contratto solo se ha avuto la possibilità di conoscere il
medesimo. Come si è anticipato, la medesima esigenza è fatta propria e
rafforzata dallo stesso codice civile. Gli artt. 1334 e 1335 c.c., infatti, nel
disciplinare la formazione del contratto, dettano una presunzione di conoscenza
relativamente alla proposta, all'eventuale controproposta (art. 1326 u.c.
c.c.), all'accettazione, in una parola relativamente al contenuto del
contratto. Più precisamente, gli atti ed il loro contenuto si presumono
conosciuti ed efficaci nei confronti del destinatario, del contraente, quando
essi giungono all'indirizzo del medesimo. La legge, dunque, presuppone che il
contenuto di tali atti sia efficace nei confronti del contraente solo se e
quando quest'ultima abbia avuto la possibilità di conoscerli in quanto
pervenuti al suo indirizzo. L'art. 1341 c.c., a ben vedere, sotto tale profilo
non detta una disciplina diversa dagli artt. 1334 e 1335 c.c.: l'art. 1341
c.c., infatti, subordina l'efficacia delle condizioni generali di contratto nei
confronti della parte che non ha concorso alla loro predisposizione, alla
circostanza che tale parte "le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle
usando l'ordinaria diligenza". Anche in questo secondo caso, dunque,
l'efficacia delle clausole contrattuali nei confronti del contraente è
condizionata alla conoscenza che questi ne abbia potuto avere.
In altre parole, il codice ribadisce il principio - peraltro intuitivo - che le
clausole contrattuali hanno effetto e sono vincolanti nei confronti delle parti
solo se e nella misura in cui le stesse abbiano almeno avuto coscienza
dell'esistenza delle clausole medesime.
Ne segue - per ritornare al tema del contratto di consulenza concluso oralmente
o di fatto - che le clausole di detto contratto, che non sono state conosciute,
o rese disponibili o quanto meno esposte all'investitore non potranno essere
fatte valere nei confronti del medesimo perché non lo vincolano, non avendo
egli potuto esprimere alcun consenso su clausole di cui ha ignorato
l'esistenza. Mette conto aggiungere che l'onere della prova che le clausole de
quibus sono state effettivamente comunicate al cliente spetta al consulente, il
quale, peraltro, neppure potrà far firmare al risparmiatore un modulo sul quale
è prestampata l'ammissione, da parte di quest'ultimo, di aver ricevuto notizia
dell'esistenza di clausole, atteso che in tal caso si rientrerebbe
nell'applicazione dell'art. 36 cod. cons. cit.
La conclusione così attinta, poi, è tanto più grave se si tiene conto che il
contenuto del contratto di consulenza in materia di investimenti sarà
prevedibilmente complesso, dal momento che dovrà contenere la situazione
finanziaria, gli obiettivi di rischio del risparmiatore e l'esposizione
complessiva del suo profilo, dovrà stabilire le modalità temporali di verifica
dei dati relativi al cliente e ai suoi obiettivi, dovrà stabilire criteri per
determinare in qualche modo l'ampiezza del paniere di strumenti finanziari di
potenziale interesse del risparmiatore, dovrà fissare le modalità di erogazione
delle "raccomandazioni personalizzate", dovrà fissare i criteri per
la verifica e la revisione delle stesse, dovrà fissare il corrispettivo della
consulenza ecc.: tutti aspetti, che in un contratto non documentato corrono il
rischio di perdersi nel limbo dell'indefinito e dell'inefficace.
1) Si riporta per comodità il testo del nuovo comma quinto dell'art. 1 tuf:
"per "servizi e attività di investimento" si intendono i
seguenti, quando hanno per oggetto strumenti finanziari: a) negoziazione per
conto proprio; b) esecuzione di ordini per conto dei clienti; c) sottoscrizione
e/o collocamento con assunzione a fermo ovvero con assunzione di garanzia nei
confronti dell'emittente; c-bis) collocamento senza assunzione a fermo né
assunzione di garanzia nei confronti dell'emittente; d) gestione di portafogli;
e) ricezione e trasmissione di ordini; f) consulenza in materia di
investimenti; g) gestione di sistemi multilaterali di negoziazione".
2) Sulla natura e le caratteristiche generali dei servizi accessori v., anche
per citt., COSTI, ENRIQUES, Il mercato mobiliare, Padova, 2004, 255 ss.
3) Sulla necessità, a pena di nullità, che i contratti relativi ai servizi di
investimento siano conclusi con i soggetti abilitati alla prestazione dei
servizi medesimi v. Cass., 7 marzo 2001, n. 3272, in Foro it., Rep. 2001, voce
Contratto in genere, n. 449.
4) Si riporta per comodità del lettore l'art.1, comma 1, lett. r, tuf:
"nel presente decreto legislativo si intendono per ... r) "soggetti
abilitati": le SIM, le imprese di investimento comunitarie con succursale
in Italia, le imprese di investimento extracomunitarie, le Sgr, le società di
gestione armonizzate, le Sicav nonché gli intermediari finanziari iscritti
nell'elenco previsto dall'articolo 107 del testo unico bancario e le banche
italiane, le banche comunitarie con succursale in Italia e le banche
extracomunitarie, autorizzate all'esercizio dei servizi o delle attività di
investimento".
5) I primi due comma dell'art. 18-bis tuf prescrivono che "1. La riserva
di attività di cui all'articolo 18 non pregiudica la possibilità per le persone
fisiche, in possesso dei requisiti di professionalità, onorabilità,
indipendenza e patrimoniali stabiliti con regolamento adottato dal Ministro
dell'economia e delle finanze, sentite la Banca d'Italia e la Consob, di
prestare la consulenza in materia di investimenti, senza detenere somme di
denaro o strumenti finanziari di pertinenza dei clienti. 2 E' istituito l'albo
delle persone fisiche consulenti finanziari, alla cui tenuta, in conformità
alle disposizioni emanate ai sensi del comma 5, provvede un organismo i cui
rappresentanti sono nominati con decreto del Ministro dell'economia e delle
finanze sentite la Banca d'Italia e la Consob".
6) Nel testo si è volutamente riprodotta la nozione di agency fatta propria dal
diritto di matrice anglosassone (cfr. GREGORY, The law of agency and
partnership3, St. Paul, 2001, 17 ss.) in quanto comprensiva dei caratteri che
distinguono il rapporto tra promotore ed intermediario: sarebbe, infatti,
estremamente difficile e lungo descrivere tale rapporto facendo riferimento
agli istituti propri del nostro sistema, atteso che sono più di uno gli
istituti che possono determinare il sorgere di un rapporto fiduciario (ad es.
rappresentanza volontaria diretta o indiretta, mandato, rappresentanza
commerciale, agenzia, lavoro dipendente) e che ciascuno di tali istituti
presenta caratteri che in parte concorrono alla determinazione del predetto
rapporto tra promotore e preponente, insieme, peraltro, a caratteri non
conciliabili col rapporto medesimo.
7) V. ad es. comunicazione Consob n. BOR/RM/94005134 del 23 maggio 1994 ed in
dottrina, tra molti, BOCHICCHIO, Intermediazione mobiliare e sollecitazione al
pubblico risparmio nella disciplina del mercato mobiliare, Padova, 1994, 20 ss.
8) ZITIELLO, La consulenza in materia di investimenti, in ZITIELLO (cur.), La
nuova disciplina dei mercati, servizi e strumenti finanziari, Torino, 2007, 436
ss.
9) Si riporta ancora una volta il testo complessivo dell'art. 4 n. 25 della
direttiva 2004/39/CE: è "«agente collegato»: persona fisica o giuridica
che, sotto la piena e incondizionata responsabilità di una sola impresa di
investimento per conto della quale opera, promuove i servizi di investimento
e/o servizi accessori presso clienti o potenziali clienti, riceve e trasmette
le istruzioni o gli ordini dei clienti riguardanti servizi di investimento o
strumenti finanziari, colloca strumenti finanziari e/o presta consulenza ai
clienti o potenziali clienti rispetto a detti strumenti o servizi
finanziari". Secondo tale disposizione l'agente collegato/promotore
finanziario presta consulenza "rispetto a detti strumenti o servizi
finanziari", e gli strumenti cui la norma fa riferimenti con la parola
detti sono quelli collocati dall'agente medesimo per conto dell'impresa per la
quale opera (v. ancora la disposizione riportata).
10) Così ZITIELLO, Gli agenti collegati, in ZITIELLO (cur.), op. cit., 283 ss.,
289.
11) MACNEIL, An introduction to the law on financial investment,
Oxford-Portland, 2005, 168; e v. anche PAUL, Insurance regulation, in BLAIR,
WALKER (Cur.), Financial Service Law, Oxford, 2006, 579 ss., 583.
12) V. infatti i considerando nn. 81 e 82 della Direttiva 2006/73/CE: su queste
basi, ossia sulla premessa che i predetti considerando assegnano esplicitamente
rilevanza giuridica alla "consulenza generica", divengono poco
significativi i "dubbi" avanzati in ordine alla "utilità della
creazione di tale categoria" da parte di chi ritiene un "errore ...
continuare a parlare di consulenza strumentale" (così ZITIELLO, La
consulenza in materia di investimenti, cit., 445 e 448).
13) Può essere utile rammentare che l'art. 120 del codice delle assicurazioni
private disciplina le regole di comportamento degli "intermediari
assicurativi", nel cui albo, sia pure in sezioni distinte, sono iscritti,
tra gli altri, sia "gli agenti di assicurazione, in qualità di
intermediari che agiscono in nome o per conto di una o più imprese di
assicurazione o di riassicurazione", sia "i mediatori di
assicurazione o di riassicurazione, altresì denominati broker, in qualità di
intermediari che agiscono su incarico del cliente e senza poteri di rappresentanza
di imprese di assicurazione o di riassicurazione".
14) Altra interpretazione proposta (sembrerebbe con l'avallo di esponenti
dell'autorità di vigilanza) del considerando n. 81 è quella secondo la quale
esso distinguerebbe la "consulenza generica" dalla "consulenza
in materia di investimenti" sulla base dell'oggetto: la prima avrebbe ad
oggetto "un tipo di strumento finanziario", mentre oggetto della
seconda sarebbero "determinati strumenti finanziari". È una
distinzione che non sembra spostare i termini della questione, la quale non
verte tanto su un puro esercizio di esegesi eristica (quale quella giocata su
un'opinabile differenza di implicazioni tra le locuzioni "tipo di
strumento finanziario" e "determinati strumenti finanziari"),
quanto piuttosto di stabilire quale possa essere la disciplina della consulenza
generica. Ed in questa direzione il considerando in esame è assai chiaro (v.
infatti infra § 4).
15) In proposito è qui sufficiente rinviare a MENGONI, Responsabilità
contrattuale, voce dell'Enciclopedia del diritto (dir. Vig.), XXXIX, Milano,
1988, 1072 ss., con l'avvertenza che non si tratta di una soluzione
circoscritta al nostro paese.
16) Cfr. TARELLO, L'interpretazione della legge, Milano, 1980, 187 ss.;
SCARPELLI, Il problema della definizione e il concetto di diritto, Milano,
1955, 52; D'ALESSANDRO, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, Padova,
1989, 38 ss.; BELVEDERE, Linguaggio giuridico, voce del Digesto delle
discipline privatistiche, sez. civ., XI, Torino, 1994, 21 ss.
17) V., per tutti, il resoconto che danno della tesi dominante COSTI, ENRIQUES,
op. cit., 326 ss.; ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare2, Torino,
2003, 101 ss.
18) Cfr. SACCO, in SACCO, DE NOVA, Il contratto3, Torino, 2004, II, 431 ss.;
BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto2, Milano, 2000, 500 ss.
19) Va rammentato che uno dei primi commentatori della legislazione sui servizi
di investimento, nel confrontare la medesima con le clausole generali del
codice civile della buona fede, diligenza, correttezza ecc., si pose il dubbio
dell'effettiva compatibilità della legislazione di settore con l'impianto del
codice e si chiese "se una qualche rimeditazione di questo assetto
tradizionale non debba essere debba essere indotta dal modello di tutela che ci
occupa" (DI MAJO, La correttezza nell'attività di intermediazione
mobiliare, in Banca, borsa, tit. credito, 1993, I, 289 ss., 290.).
20) V. SARTORI, Le regole di condotta degli intermediari finanziari. Disciplina
e forme di tutela, Milano, 2004, 118 ss.
21) GREGORY, op. cit., 13.
22) PARDOLESI, MOTTI, L'informazione come bene, in DE NOVA, INZITARI, TREMONTI,
VISENTINI (cur.), Dalle res alle new properties, Milano, 1991, 37 ss.
23) V. ancora BIANCA, op. cit., 164 ss.
24) Accenna ai profili civilistici della dottrina economica citata nel testo
BELLANTUONO, I contratti incompleti nel diritto e nell'economia, Padova, 2000,
20 ss.
25) Cfr. GUIZZI, Mercato finanziario, voce dell'Enciclopedia del diritto,
Aggiornamento, V, Milano, 2001, 744 ss., 747, il quale sottolinea che
"regole e norme [del mercato finanziario] appaiono suscettibili di una
considerazione distinta rispetto a quelle integranti lo statuto normativo di
operazioni di scambio di beni diversi dai prodotti finanziari, ovvero alla
prestazione di servizi diversi da quelli di investimento" a causa degli
specifici interessi che animano la disciplina di settore.
26) Cfr. DE NOVA, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, 121 ss., 154, 164 ss.
27) A sua volta il considerando n. 41 della medesima Direttiva stabilisce che
"la presente direttiva prescrive alle imprese di investimento che
forniscono servizi di investimento diversi dalla consulenza in materia di
investimenti a nuovi clienti al dettaglio di concludere un accordo di base
scritto con il cliente in cui vengano fissati i diritti e gli obblighi
essenziali dell'impresa e del cliente".
28) IRTI, L'ordine giuridico del mercato3, Roma-Bari, 2004, 48; BARCELLONA,
CAMARDI, Le istituzioni del diritto privato contemporaneo, Napoli, 2002, 282 s.
Ma occorre guardarsi dall'errore di ritenere che questi rilievi sulla
necessaria trasparenza del mercato non siano ovunque condivisi: v. infatti, ad
esempio, MCMILLAN, Reinventing the bazar. A natural history of markets, New
York, 2003, 180 s.
Scarica Articolo PDF