Lavoro
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/12/2014 Scarica PDF
La graduazione delle tutele nel vigente art. 18 l.300/70 tra "limiti interni" e "limiti esterni" al potere di licenziamento
Lorenzo Carletti e Sabrina Grivet Fetà, AvvocatiSommario: 1. Premessa: il vigente art. 18, l. 300/1970, e la graduazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo. - 2. La graduazione progressiva delle sanzioni nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento disciplinare. - 2.1. L’insussistenza del fatto tra teoria del “fatto materiale” e teoria del “fatto giuridico”. - 2.2. Spunti per una “terza via”: il doppio livello di giudizio, i limiti intrinseci ed estrinseci. - 3. La graduazione delle tutele avverso il licenziamento disciplinare illegittimo alla luce della teoria generale dei limiti all’esercizio del potere: una proposta interpretativa. - 3.1. (segue) La sussistenza/insussistenza del fatto contestato alla luce della teoria dei limiti del potere di recesso. - 4. La graduazione progressiva delle sanzioni nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento per motivi economici. - 4.1. Il duplice livello di valutazione del Giudice. - 4.2. La valutazione sul rispetto dei c.d. “limiti interni” nel licenziamento per motivi economici. - 4.3. La valutazione sul rispetto dei c.d. “limiti esterni” nel licenziamento per motivi economici. - 4.4. Le nostre conclusioni sulla graduazione di tutele nel licenziamento per motivi economici. - 5. Cenni conclusivi.
1. Premessa: il vigente art. 18, l. 300/1970, e la graduazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo
Come noto, la riforma dell’art. 18, l. 300/70, operata dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. “Riforma Fornero”), tanto attesa quanto discussa[1], ha avuto come precipua finalità la rottura del tradizionale schema di unitarietà sanzionatoria delle conseguenze del licenziamento illegittimo propria della previgente disciplina.
Il nuovo art. 18, infatti, che significativamente viene rubricato “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo” e non più “Reintegrazione nel posto di lavoro”, introduce una graduazione progressiva delle sanzioni applicabili al licenziamento illegittimo, e ciò fa in parallelo con una classificazione dei vizi da cui il recesso stesso può essere affetto.
In modo diverso rispetto a quanto proposto, alla vigilia della riforma, da alcune voci della dottrina[2], la distinzione a monte dei vizi a cui ricollegare le varie sanzioni graduate non si articola sulla bipartizione (secondo alcuni, ontologicamente fondata) tra motivi soggettivi e motivi oggettivi di licenziamento, bensì viene agganciata ad una parallela diversificazione dei vizi del licenziamento (tanto soggettivamente quanto oggettivamente motivato) sulla base della loro gravità.
Così, si riscontrano ora nel nuovo art. 18 quattro diversi regimi di conseguenze del licenziamento illegittimo, a seconda dei vizi qualificanti tale illegittimità. Innanzitutto, vi sono due opposte ipotesi “estreme”: da una parte, il licenziamento radicalmente nullo, perché discriminatorio, intimato per motivo illecito o in violazione di norme di legge, al ricorrere del quale si applica la “vecchia” tutela reintegratoria piena, con ricostituzione del rapporto di lavoro ab origine e corresponsione di tutte le retribuzioni maturate medio tempore; con il chiarimento, peraltro, ad opera della riforma, dell’applicabilità di tale regime a prescindere dal requisito dimensionale del datore di lavoro o dalle caratteristiche del rapporto. Al capo opposto, vi è il caso di vizi meramente formali o procedurali da cui il licenziamento sia affetto, quali la violazione della procedura di cui all’art. 7 l. 604/1966 o della procedura di contestazione dell’illecito disciplinare ex art. 7 l. 300/1970: in questi casi, per il 6° comma del nuovo art. 18, al lavoratore spetterà una tutela meramente economica, nella forma di un risarcimento determinato tra una somma minima di sei mensilità retributive ed una massima di dodici mensilità.
Accanto a questi due poli, tuttavia, sussistono due ulteriori ipotesi “mediane” di illegittimità del licenziamento, tra le quali non appare una netta alterità quanto piuttosto una vera e propria graduazione, tanto dei vizi quanto delle tutele. Si tratta della distinzione, a livello sanzionatorio, tra la c.d. “tutela reale debole” (o “attenuata”), di cui al comma 4°, e la c.d. “tutela indennitaria forte”, di cui al comma 5°[3]. Nel primo caso, al lavoratore illegittimamente licenziato spetterà sì la reintegra sul posto di lavoro, ma l’indennità risarcitoria, priva di limite minimo, non potrà superare l’ammontare massimo di dodici mensilità retributive; nel secondo caso, invece, il licenziamento pur viziato interrompe il rapporto di lavoro e al lavoratore spetterà unicamente un risarcimento di importo compreso tra dodici e ventiquattro mensilità.
Come ben si comprende fin dalla denominazione convenzionale data a questi due differenti regimi sanzionatori, la questione è piuttosto delicata: si tratta, in sintesi, di tracciare un confine tra quelle ipotesi di illegittimità che comunque non toccano l’idoneità del recesso datoriale a recidere il rapporto di lavoro (e dunque danno luogo ad una tutela di tipo meramente economico, seppur quantitativamente “forte”) e quei casi in cui invece il licenziamento viziato non interrompe il rapporto (e dunque la tutela, seppur “debole” dal punto di vista dell’entità risarcitoria limitata nel massimo e non nel minimo, non può che ricostituire le posizioni soggettive precedenti al recesso). Si tratta, in sintesi, del «punto cruciale di quanto spazio continuare a dare, nell’applicazione del nuovo art. 18, alla tutela reintegratoria […], e quanto concederne, di contro, alla nuova, nonché ‘eversiva’[…] tutela indennitaria o economica»[4].
2. La graduazione progressiva delle sanzioni nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento disciplinare
2.1. L’insussistenza del fatto tra teoria del “fatto materiale” e teoria del “fatto giuridico”.
Come detto, né il vecchio né il nuovo art. 18 riconoscono alla dicotomia tra licenziamento per motivi soggettivi e licenziamento per motivi oggettivi una rilevanza ontologicamente fondante la diversità di sanzioni. I nuovi commi 4 e 5, invece, presentano una graduazione delle sanzioni applicabili collegata ad una differenziazione dei vizi che possono riscontrarsi nei due tipi di licenziamento.
Per quanto riguarda il c.d. licenziamento disciplinare (ossia, secondo la c.d. “teoria ontologica”, definitivamente avallata dalla Corte Costituzionale con sentenza 30 novembre 1982, n. 204, qualunque licenziamento intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo), l’attuale art. 18 legge 300/70 prevede ora, per le ipotesi in cui il Giudice «accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro», la possibilità di applicare come conseguenza sanzionatoria sia la “reintegra attenuata” sia la tutela “indennitaria forte”: ricorrerà il primo caso, ex comma 4, quando il licenziamento appaia illegittimo «per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», mentre si rientrerà nel dettato del comma 5 «nelle altre ipotesi in cui [il Giudice] accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro».
La diversità tra le due declaratorie non appare tanto evidente quanto significativa è la differenza tra i due regimi di conseguenze sanzionatorie: in particolare, sembra ictu oculi difficilmente individuabile il criterio discretivo tra «l’insussistenza del fatto contestato» e le «altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro».
In particolare, non è così semplice pervenire alla definizione del concetto di “insussistenza del fatto contestato”, ed infatti tale nozione ha dato origine ad un’ampia discussione dottrinale, ben presto approdata anche nelle Aule dei Giudici di merito.
Essenzialmente, la contrapposizione di opinioni in ordine alla qualificazione della nozione di “insussistenza del fatto contestato”, è determinata da due principali orientamenti esegetici: al primo indirizzo appartengono coloro i quali ritengono che il legislatore, con tale espressione, abbia inteso riferirsi al fatto storico descritto dal datore di lavoro nella lettera di contestazione, cioè al c.d. “fatto materiale” nei suoi connotati concreti all’interno della realtà empirica; sicché, una volta accertato che il fatto (così come contestato dal datore di lavoro) è realmente (e storicamente) avvenuto, per il Giudice non vi sarebbe più possibilità di applicare la sanzione della “reintegra attenuata”, ma tutt’al più egli potrebbe concedere al lavoratore la tutela “indennitaria forte”, ove dovesse ritenere altrimenti viziato il licenziamento intimato[5].
Al secondo indirizzo appartengono invece quegli interpreti i quali ritengono che il legislatore, con l’espressione “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto riferirsi non solo al fatto materiale (inteso, come detto, nella sua storicità), bensì ad un concetto già giuridificato di “fatto avente gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa”, il quale dunque deve essere inteso come «il fatto globalmente accertato, nell'unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l'elemento soggettivo» (così Tribunale Bologna, ord. 15.10.2012), comprensivo anche della «valutazione in ordine alla proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione» (Tribunale Ravenna, ord. 18.03.2013); pertanto, secondo tale indirizzo (noto anche come orientamento del “fatto giuridico”), la sanzione della “reintegra attenuata” sarebbe applicabile dal Giudice non solo nel caso di un fatto materiale storicamente insussistente, ma anche nel caso di un fatto materiale sì accaduto e sussistente, il quale tuttavia, agli occhi del Giudice, appaia privo di quei requisiti idonei a sovrapporlo alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo soggettivo (in considerazione della gravità del fatto stesso e/o del danno, della proporzionalità tra il fatto e la sanzione del licenziamento, dell’intensità del dolo o del di colpa dell’inadempimento)[6].
Un punto centrale, e da subito portato all’attenzione della giurisprudenza, di tale contrapposizione esegetica risiede nella collocazione della “valutazione in ordine alla proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione”.
Secondo l’orientamento del “fatto materiale”, infatti, la valutazione sulla proporzionalità costituisce un sindacato che il giudice dovrebbe compiere soltanto dopo aver accertato la sussistenza materiale del fatto e con l’unico fine di decidere sull’applicabilità o meno della sanzione meno gravosa della “tutela indennitaria forte”: dunque, secondo tale interpretazione, il sindacato di proporzionalità si collocherebbe in ogni caso nell’ambito del comma 5 dell’art. 18 l. 300/70. Invece secondo l’orientamento opposto (del c.d. “fatto giuridico”), la valutazione sulla proporzionalità costituisce un sindacato che il giudice dovrebbe compiere nell’ambito della disciplina del comma 4 art. 18, in quanto tale giudizio sarebbe necessario già al fine di ritenere o meno la sussistenza del fatto contestato, con la conseguenza di stabilire per questa via l’applicabilità o meno della più gravosa sanzione della “reintegra attenuata”. Seguendo questa posizione, dunque, il giudizio di proporzionalità sarebbe già incluso all’interno della valutazione circa la sussistenza del fatto e perciò si collocherebbe all’interno della previsione del 4° comma, finalizzata a disciplinare l’applicazione della sanzione più gravosa.
Entrambi tali indirizzi interpretativi presentano tuttavia alcune debolezze e sono stati per questo autorevolmente sostenuti e altrettanto autorevolmente criticati.
Il primo indirizzo (del c.d. “fatto materiale”) è stato accusato, infatti, di voler riportare nel campo d’applicazione della c.d. “tutela indennitaria forte”, e dunque nel regime che esclude la prosecuzione del rapporto di lavoro, anche licenziamenti avvenuti per fatti sì “sussistenti”, ma palesemente “pretestuosi”, in quanto, alla luce di tale orientamento, la violazione del principio di proporzionalità tra fatto contestato e sanzione adottata importerebbe sempre l’applicazione della suddetta tutela indennitaria anche a fronte di fatti scarsamente rilevanti dal punto di vista disciplinare, ancorché realmente accaduti e dimostrati. Basti pensare al licenziamento intimato “per omessa timbratura del cartellino in entrata”, in assenza di una disciplina collettiva di riferimento: in tal caso, a fronte dell’accertamento dell’effettiva omissione da parte del lavoratore, non potrebbe essere data prosecuzione al rapporto di lavoro, nonostante la palese sproporzione tra fatto e sanzione.
Al secondo indirizzo (del c.d. “fatto giuridico”) è stata invece rimproverata l’eccessiva dilatazione dell’area della “tutela reintegratoria”, tanto da rendere di fatto priva di concreta applicabilità la diversa sanzione della tutela “indennitaria forte” prevista dal comma 5, art. 18 l. 300/70, con conseguente inattuazione del sistema di graduazione delle tutele voluto dalla riforma, visto che, seguendo il criterio interpretativo suggerito da tale orientamento, la sproporzione del provvedimento espulsivo adottato (ritenuta dal Giudice alla luce della valutazione ex art. 2106 c.c.) renderebbe sempre applicabile la sanzione prevista dal comma 4° art. 18 l. cit..
2.2. Spunti per una “terza via”: il doppio livello di giudizio, i limiti intrinseci ed estrinseci
A fronte delle difficoltà mostrate da entrambi i filoni interpretativi nel dare piena attuazione esegetica al processo di graduazione delle tutele voluto dalla riforma, alcuni interpreti hanno tentato di individuare possibili correttivi alla teoria del “fatto giuridico”. Paiono a tal riguardo particolarmente interessanti gli spunti offerti da una recente giurisprudenza di merito (Tribunale di Bari del 10 ottobre 2013[7]), nonché da una voce della dottrina[8].
Il Tribunale di Bari, prendendo le distanze sia dalla teoria del fatto materiale sia da quella del fatto giuridico, pone l’accento sulla necessità di un duplice livello di giudizio, l’uno volto a riscontrare «in astratto» i presupposti di legittimità del licenziamento, l’altro, successivo, funzionale all’analisi nella fattispecie «concreta» degli elementi fondanti la validità del recesso. In altre parole, a fronte di un licenziamento intimato per il ricorrere di un fatto qualificato dal datore di lavoro come giusta causa o giustificato motivo, il Giudice dovrebbe dapprima valutare se il fatto contestato sia «in astratto» “passibile di sanzione espulsiva”, e in seguito constatare se il “fatto contestato astrattamente passibile di sanzione espulsiva e commesso dal lavoratore con coscienza e volontà” possa, «in concreto», qualificarsi come giusta causa o giustificato motivo soggettivo, in considerazione del contesto complessivo delle circostanze in cui si è verificato, tenendo conto dell’esistenza di ragioni giustificatrici nonché della contestualizzazione della condotta stessa in termini tali da sminuirne la gravità.
Così, secondo tale Giurisprudenza di merito, solo nel caso di un fatto che, pur se «astrattamente» passibile di licenziamento, risulti essere «in concreto» (tenuto conto delle sue caratteristiche storiche e del contesto in cui si è verificato) non così grave, il Giudice dovrebbe applicare la sanzione della tutela “indennitaria forte” prevista dal comma 5 dell’art. 18 l. cit.; il Tribunale di Bari, infatti, afferma che «le “altre ipotesi” in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa (che, ai sensi del quinto comma dell’art. 18, legittimano l’erogazione della sola tutela obbligatoria) vanno ricondotte ai casi in cui, a fronte di un fatto contestato astrattamente passibile di sanzione espulsiva ein concreto commesso dal lavoratore con coscienza e volontà, emergano circostanze particolari e contingenti che diminuiscono la gravità dell’inadempimento fino a far fuoriuscire la condotta addebitata dalla fattispecie della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo. In queste ipotesi, dunque, il fatto addebitato “sussiste” (nel senso prima chiarito), ma in concreto, per il contesto complessivo delle circostanze in cui si è verificato, non può qualificarsi come giusta causa o giustificato motivo soggettivo del licenziamento. Il lavoratore, cioè, ha tenuto una condotta astrattamente passibile di licenziamento disciplinare, ma in concreto, per l’esistenza di ragioni giustificatrici ovvero per la contestualizzazione della condotta stessa in termini tali da sminuirne la gravità, non è sussumibile nella clausola generale della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento».
La medesima necessità di un duplice livello di giudizio in ordine alla valutazione della “sussistenza” o meno del fatto contestato viene sostenuta, anche se con accenti parzialmente diversi, nel già citato contributo di Perina.
Come il Tribunale di Bari, anche l’Autore riconduce l’indagine del Giudice ad un’articolazione su due successivi livelli, i quali però non vengono individuati come “valutazione in astratto” e “valutazione in concreto”. Viene invece sostenuta la necessità di “scindere” la valutazione della gravità dell’infrazione, attraverso la distinzione tra “elementi intrinseci” (elementi interni necessari alla sua sussistenza, siano essi attinenti all’elemento soggettivo o all’elemento oggettivo) ed “elementi estrinseci … che esulano dal fatto giuridico e attengono alla colorazione del contesto” e sulla base di un tale duplice livello di valutazione si afferma l’inapplicabilità della sanzione della “reintegra”, con applicazione della sola tutela “indennitaria”, laddove si accerti la sussistenza di “elementi estrinseci” che facciano ritenere meno grave un’infrazione realmente accertata nei suoi “elementi intrinseci”.
E del resto – come sottolinea anche l’Autore – tale necessità di “scindere” la valutazione della gravità dell’infrazione su di un duplice livello nasce dall’esigenza di una lettura dell’art. 18 L. cit. che, salvaguardando la ratio stessa della riforma, non neghi operatività ad una delle diversificazioni sanzionatorie introdotte dalla novella stessa. Per questo, una esegesi efficace del nuovo art. 18 rende «indispensabile (come ribadisce l’Autore citato) scindere il ‘fatto’ dalla sua intrinseca gravità»;infatti «… l’elemento del grado di fiduciarietà, le attenuanti, le aggravanti, la natura della prestazione, la pregressa storia lavorativa ‘immacolata’ del lavoratore. […] tutti questi elementi appartengono non tanto alla tematica ‘sussistenza/insussistenza del fatto’, bensì appartengono al momento valutativo della ricorrenza o meno della causale legittimante il licenziamento.»[9].
In definitiva, anche secondo l’Autore da ultimo citato, a fronte della gradazione sanzionatoria introdotta dalla novella (ove in caso di licenziamento illegittimo sono previste, attraverso il 4° ed il 5° comma dell’art. 18 L. cit., due tipologie di sanzioni: la c.d. tutela “reintegratoria attenuta” e la c.d. tutela “indennitaria forte”), appare necessario ipotizzare un’articolazione bifasica del giudizio la quale ben può avvenire separando la tematica della “intrinseca” sussistenza del fatto da quella degli elementi estrinseci che colorano in concreto e qualificano il fatto stesso. Secondo l’Autore citato, poi, all’esito di tale duplice livello di valutazione si potrà giungere ad affermare l’inapplicabilità della sanzione della “reintegra”, con applicazione della sola tutela indennitaria, laddove si accerti la sussistenza di “elementi estrinseci” che facciano ritenere meno grave un’infrazione realmente accertata nei suoi “elementi intrinseci”: gli “elementi estrinseci” del resto – si afferma – «…esulano dal fatto giuridico e attengono alla colorazione del contesto (es. furto di modico valore sussistente ma con attenuanti; pentimento; scuse ecc.) (e) non possono far venir meno il fatto giuridico … semmai incidono sulla declaratoria di illegittimità del licenziamento con diritto all’indennizzo»[10].
3. La graduazione delle tutele avverso il licenziamento disciplinare illegittimo alla luce della teoria generale dei limiti all’esercizio del potere: una proposta interpretativa
Per superare, dunque, le debolezze e le aporie che gravano su entrambe le teorie del “fatto materiale” e del “fatto giuridico”, alcuni interpreti, ai fini della scelta tra la tutela indennitaria forte e tutela reintegratoria, hanno indicato la via di un duplice piano di giudizio, in cui la valutazione della sussistenza del fatto è separata dalla valutazione della contestualizzazione in concreto (“colorazione”) del fatto stesso, ed in cui solo all’interno del primo livello di giudizio può esservi spazio per un rimedio di tipo “reintegratorio” mentre nell’ambito del secondo livello di giudizio può esservi spazio soltanto per l’applicazione della tutela indennitaria forte.
Ebbene, una tale “strutturazione” per gradi del giudizio di legittimità che il Giudice dovrebbe compiere con riguardo al potere di recesso esercitato dal datore di lavoro (basata, come detto, sulla valutazione dapprima “in astratto” e poi “in concreto” del fatto contestato nonché sulla valutazione degli “elementi intrinseci” e poi “estrinseci” del fatto) non ci pare per la verità costituisca un’anomalia dal punto di vista dei principi generali del diritto. Al contrario, un simile schema potrebbe agevolmente essere inserito, e completato dogmaticamente, all’interno della teoria generale dei limiti all’esercizio del potere proposta dalla più autorevole dottrina civilistica.
Con riguardo, infatti, allo studio delle situazioni giuridiche soggettive di “potere”, si è circostanziata la possibilità di legittimo esercizio del potere stesso sulla base del rispetto di “limiti interni” e “limiti esterni”, «i primi così definiti perché riconducibili alla stessa ragione giustificativa del ‘potere’, connaturati alla struttura stessa della situazione cui ineriscono (di talché si può dire che essa nasca limitata) e tali da influire immediatamente ab origine sul suo esercizio: concorrono infatti alla determinazione quantitativa (sostanziale e/o formale) di esso e segnano il confine oltrepassato il quale il potere cessa e si apre la zona dell’impossibilità giuridica. I secondi caratterizzati invece dall’occasionalità della presenza: non riguardano infatti il diritto in sé – in quella cioè che ne costituisce la struttura fisionomica – ma singole situazioni di diritto in circostanze particolari. Si ricollegano infatti alla più o meno occasionale o accidentale coesistenza di situazioni di vantaggio o impongono invece al titolare del diritto (nel senso del non potere se non a certe condizioni o in un certo modo) la considerazione anche di un interesse altrui; incidono pertanto non già, ed ab origine, sull’estensione del contenuto ma, una volta, solo sul concreto esercizio del diritto paralizzandolo in varia misura»[11].
In altre parole, secondo tale impostazione concettuale, possono individuarsi due diversi ordini di limiti all’esercizio del potere: i primi sono “limiti interni”, che condizionano l’esistenza stessa del potere e sono quelle circostanze unicamente al sorgere delle quali viene creata anche la posizione giuridica soggettiva del potere e in assenza delle quali il potere stesso non esiste e dunque non può essere esercitato. Una volta che il potere sia legittimamente sorto in capo a chi lo esercita, esistono, invece, “limiti esterni” relativi alle modalità di esercizio, i quali si relazionano con l’estrinsecazione del potere nella realtà circostante, e dunque con le posizioni giuridiche sulle quali il potere incide. Una volta che il potere è validamente sorto (perché ne sono stati rispettati i “limiti interni”), potrà essere esercitato in violazione dei “limiti esterni” ad esso posti, ma in tal caso non si potrà comunque parlare di una carenza di potere, bensì di un eccesso, abuso o cattivo esercizio del potere stesso.
A nostro avviso, il richiamo alle nozioni di teoria generale di “limiti interni” e “limiti esterni” riveste primaria importanza all’interno della ricostruzione dogmatica dei limiti al potere di licenziamento, tanto più nella situazione odierna, per la quale a vizi diversi (e dunque a diverse ipotesi di illegittimo esercizio del potere) corrispondono diverse conseguenze sanzionatorie[12].
Riesaminando, infatti, il problema della distinzione, in concreto, tra l’ “insussistenza del fatto” e le “altre ipotesi”, di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 18, l’articolazione del giudizio su due successivi livelli appare corrispondente ad un’analisi bifasica circa la legittimità del potere di licenziare esercitato dal datore di lavoro.
Nel dettaglio, il giudizio indicato come giudizio di primo livello, e rivolto alla verifica della c.d. gravità “in astratto” del fatto contestato nelle sue componenti costitutive essenziali ed intrinseche (quali l’elemento materiale, l’elemento soggettivo ed il grave inadempimento), ben può identificarsi con un giudizio volto a verificare il rispetto del c.d. “limite interno” del potere di recesso del datore di lavoro. Ed in un tale giudizio di primo livello potrà essere valutato se a priori (in astratto) il licenziamento disciplinare sia stato effettuato, oppure no, a fronte di una «fattispecie tipizzata» in virtù della quale l’interesse contrapposto del lavoratore alla conservazione del posto possa dirsi in partenza (cioè in astratto) soccombente; una tale «fattispecie tipizzata» di riferimento potrà derivare dalla “tipizzazione sociale” delle violazioni indicata dalla contrattazione collettiva ovvero potrà derivare dalla “tipizzazione sociale” delle violazioni indicata dalla giurisprudenza in tema di “doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro”, di cui oltre meglio si dirà.
Riteniamo poi che ben possa definirsi come un giudizio volto a verificare il rispetto o meno del c.d. “limite esterno” del potere di recesso il giudizio di secondo livello, al quale il Giudice dovrebbe accedere soltanto in caso di esito positivo del giudizio di primo livello e cioè in caso di ritenuta gravità in astratto del fatto contestato: tale secondo giudizio, infatti, sarebbe volto a valutare la “gravità in concreto” del fatto contestato alla luce, parafrasando Perina come supra citato, delle circostanze di contorno del fatto, che (senza far venir meno il fatto giuridico) attengono alla colorazione di contesto. In tale giudizio di secondo livello, verrebbe valutata invece la gravità “in concreto” del fatto contestato alla luce delle circostanze particolari che hanno caratterizzato la vicenda storica (le più volte citate circostanze di contorno del fatto, che attengono alla colorazione di contesto); ciò in quanto con tale giudizio si andrebbe a verificare se, anche in concreto, quella fattispecie astratta tipizzata (la quale in principio attribuiva prevalenza all’interesse al recesso del datore di lavoro rispetto all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto) faccia ancora ritenere prevalente “a posteriori” (alla luce cioè di tutte le circostanze di contorno del fatto e di colorazione del contesto) l’interesse al recesso del datore di lavoro rispetto all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto (e così ad esempio in presenza di attenuanti rappresentate dall’avere cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità, la provocazione, la riparazione del danno, l’assenza di precedenti).
Volendo utilizzare una terminologia forse per certi versi impropria ma certamente efficace si potrebbe parlare, con riguardo alla violazione di tale “limite esterno”, di illegittimità dell’atto per eccesso/abuso di potere, ma non di sua nullità per carenza del potere stesso[13].
3.1. (segue) La sussistenza/insussistenza del fatto contestato alla luce della teoria dei limiti del potere di recesso
Riprendendo dunque, alla luce della teoria interpretativa dei “limiti interni” ed “esterni” al potere di recesso, gli spunti della dottrina e della giurisprudenza citate nel § 2.2, appare chiaro che l’articolazione del giudizio di legittimità del potere, e dunque del licenziamento, in due fasi, ben si presta a fare da contraltare alla bipartizione delle sanzioni in caso di licenziamento disciplinare viziato, fornendo al Giudice un’adeguata chiave di lettura al fine di graduare le tutele fra la reintegra attenuata e il rimedio indennitario forte.
E così, può ritenersi che vi sia un primo livello di valutazione, limitato alla gravità “in astratto” del fatto contestato nelle sue componenti costitutive essenziali ed intrinseche (quali l’elemento materiale, l’elemento soggettivo ed il grave inadempimento), il cui esito negativo (determinato dalla dichiarata insussistenza di una “gravità in astratto” del fatto contestato) condurrà all’applicazione della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 art. 18 l. cit.. In questo caso, infatti, qualora si riscontri la totale carenza della gravità in astratto del fatto, perché il fatto non sussiste storicamente, non è stato compiuto con coscienza e volontà o non costituisce un grave inadempimento secondo la “tipizzazione sociale” di cui subito si dirà, mancano i presupposti stessi al ricorrere dei quali sorge legittimamente in capo al datore di lavoro il potere di licenziare; in altre parole, non sarebbero rispettati i “limiti interni” ed intrinseci di quel potere, con una situazione di radicale carenza del potere stesso e dunque di invalidità ab origine dell’atto che ne è conseguenza, i cui effetti debbono quindi essere travolti dall’applicazione di una tutela di tipo reintegratorio.
Accompagnato al primo livello di valutazione (limitato alla gravità “in astratto” del fatto contestato) si può ritenere, poi, che vi sia un secondo livello di valutazione, a cui il Giudice accede soltanto in caso di esito positivo del giudizio di primo livello (e cioè in caso di ritenuta gravità in astratto del fatto contestato), il quale è volto a valutare la “gravità in concreto” del fatto contestato, alla luce delle circostanze della vicenda come la sussistenza di alcuni elementi di contorno del fatto, che (senza far venir meno il fatto giuridico in sé) attengono alla colorazione di contesto e potrebbero rendere meno grave la violazione: ad esempio le attenuanti rappresentate dall’avere cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità, la provocazione, la riparazione del danno, l’assenza di precedenti. L’esito negativo di tale secondo livello di valutazione, incentrato sulla valutazione della “gravità in concreto” del fatto contestato, determinerà invece l’applicazione della sanzione indennitaria di cui al comma 5, art. 18. In questo secondo caso, infatti, i “limiti interni” del potere sono stati rispettati, e dunque il potere è legittimamente sorto in capo a chi lo ha esercitato; tuttavia tale esercizio, posto in relazione con le sue modalità e con le posizioni soggettive su cui ha inciso, si è compiuto in violazione dei “limiti esterni”, risultando non invalido ma sicuramente illecito, e dunque conferendo a chi ingiustamente ne ha subito gli effetti il diritto al risarcimento del danno.
Volendo allora tratteggiare, sulla base dell’applicazione del sopra indicato “doppio livello” di valutazione, una ripartizione fra le fattispecie assoggettabili, da un lato, alla «reintegra attenuata» e dall’altro alla tutela «indennitaria forte», si può ipotizzare la seguente suddivisione.
Innanzitutto, sulla base della lettera della legge, devono essere assoggettati al regime della «reintegra attenuata» prevista dal comma 4 art. 18 l. cit., i recessi intimati a fronte di c.d. “fatti inesistenti”, vale a dire quei fatti contestati dal datore di lavoro, i quali, pur risultando, alla luce di quanto “addotto” dal datore di lavoro nella contestazione d’addebito, astrattamente idonei a giustificare il licenziamento, stante la descrizione di una condotta la quale è sanzionata dal CCNL applicato con il provvedimento espulsivo ovvero stante la descrizione di un comportamento che comunque costituisce violazione di doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, ciononostante si rivelino, all’esito dell’istruttoria, inesistenti in quanto mai accaduti, ovvero insussistenti in quanto il lavoratore non li ha commessi o non sono a lui imputabili (poiché dovuti a caso fortuito, forza maggiore, fatto di terzo).
Debbono inoltre essere tutelati in via «reintegratoria» i licenziamenti intimati a fronte di fatti sì sussistenti nella loro storicità, ma tuttavia c.d. “pretestuosi”, categoria nella quale possono ricondursi i “fatti che rientrano tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili” (così come previsto dallo stesso comma 4, art. 18 l. cit.), ma anche quegli accadimenti contestati dal datore di lavoro i quali (pur in mancanza di un codice disciplinare) già astrattamente, alla luce di quanto “addotto” dal datore di lavoro nella contestazione d’addebito, risultino intrinsecamente (sulla base dei fatti esposti) inidonei a giustificare il licenziamento e ciò in quanto nel fatto contestato vi sia la descrizione di una condotta la quale non costituisce violazione di doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro.
A tal proposito è però opportuna una puntualizzazione.
E’ infatti importante individuare un criterio interpretativo generale che risulti applicabile anche nel caso in cui non vi sia alcun contratto collettivo alla cui vigenza soggettiva sia possibile richiamarsi nel caso concreto oppure laddove il fatto commesso non figuri tra le condotte punibili con sanzioni conservative sulla base del codice disciplinare. A fronte di questa situazione, infatti, il rischio potrebbe essere che anche un fatto esiziale (ad esempio i pochi minuti di ritardo del lavoratore, o l’omessa timbratura del cartellino), in assenza di un contratto collettivo applicabile oppure qualora il fatto non sia previsto come condotta altrimenti sanzionabile in via conservativa, possa fondare un licenziamento sicuramente illegittimo, ma valido per la sussistenza storica del fatto contestato, dando luogo ad una tutela meramente indennitaria, la quale però appare nel caso concreto palesemente insufficiente[14].
Ed allora a nostro avviso è opportuno richiamarsi alla consolidata giurisprudenza di legittimità, fondata anche sulla pronuncia della Corte Costituzionale 25 luglio 1989, n. 427, secondo la quale il licenziamento può essere intimato per ragioni disciplinari non soltanto quando la condotta compiuta nel caso concreto sia espressamente sanzionata con il provvedimento estintivo all’interno del codice disciplinare, bensì anche laddove «il recesso sia fondato su ragioni giustificative previste unicamente e direttamente dalla legge» (Cass. 26 luglio 2002, n. 11108), poiché «ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare in presenza della violazione di norme di legge o comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione» (Cass. 9 agosto 2001, n. 10997). In altre parole, la tipizzazione delle condotte che integrano giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento può ritenersi contenuta in parte nei codici disciplinari di riferimento, ma anche racchiusa in una sorta di “tipizzazione sociale” di condotte che, poste in essere in violazione di norme di legge o delle basilari regole del vivere civile, non hanno bisogno di essere portate a conoscenza del lavoratore a mezzo della redazione del codice disciplinare e della sua pubblicità, e ciò in quanto l’intollerabilità e l’illiceità di tali condotte è già insita nella comune coscienza.
A tal riguardo, si segnala come la costante giurisprudenza abbia affermato che tra questi “doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro”, la cui violazione giustifica il licenziamento (pur in mancanza di un codice disciplinare o dell’affissione di esso) rientrano l’obbligo di rendere regolarmente la prestazione lavorativa (Cass. 13 giugno 2012, n. 9644), l’obbligo di non porre in essere comportamenti illeciti ai danni del datore di lavoro contrari al c.d. minimo etico (Cass. 2 settembre 2004, n. 17763; Cass. 29 maggio 2012, n. 8535), mentre Cass. 18 settembre 2009, n. 20270, ha ritenuto violazione dei “doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro”, non bisognosa di essere portata a conoscenza del lavoratore mediante affissione del codice disciplinare, la condotta lesiva della fiducia esistente tra datore di lavoro e dipendente, consistente nel porre in essere sotterfugi e comportamenti fraudolenti; inoltre, secondo la consolidata giurisprudenza, costituisce violazione dei “doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro” l’infrazione di un obbligo o di un divieto sanzionati dalla legge penale, perché in quel caso è la stessa legge dello Stato che impone doveri vincolanti per tutti i consociati sulla base di disposizioni generali, indifferenti alla previsione specifica in un codice disciplinare (Cass. 9 marzo 1995, n. 2762).
Fatta tale puntualizzazione e volendo riprendere la nostra suddivisione fra le fattispecie assoggettabili, da un lato, alla reintegra attenuata e dall’altro alla tutela indennitaria forte, non ci resta che evidenziare, da ultimo, quali siano le fattispecie che, secondo la nostra ricostruzione, debbono ricadere nel regime della tutela “indennitaria forte” prevista dal comma 5° art. 18 l. cit..
Ebbene, a nostro avviso, riteniamo che ricada nel regime della tutela “indennitaria forte” prevista dal comma 5° art. 18 l. cit. la fattispecie in cui il datore di lavoro abbia contestato al lavoratore una condotta la quale risulti essere, per un verso, “astrattamente grave” nei suoi elementi costituitivi essenziali (sussistenza dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo) e ciò in quanto espressamente sanzionata con il provvedimento espulsivo dal contratto collettivo applicato ovvero costituente, comunque, la violazione di doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, ma, per altro verso, risulti essere (ciononostante) inidonea “in concreto” ad integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo soggettivo e ciò a fronte della sussistenza di alcune circostanze di contorno del fatto, che (senza far venir meno il fatto giuridico) rendendo meno grave la violazione in sé (ad esempio, come si diceva in precedenza, le attenuanti rappresentate dall’avere cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità, la provocazione, il pentimento, la riparazione del danno, l’assenza di precedenti).
In definitiva, riassumendo gli approdi a cui si può pervenire secondo la nostra ricostruzione, riteniamo che, in caso di licenziamento disciplinare, la sanzione più gravosa della reintegra dovrebbe essere applicata al ricorrere delle seguenti fattispecie, le quali si caratterizzano per la violazione dei “limiti interni” del potere di recesso del datore di lavoro:
- il fatto contestato rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili (così come previsto dallo stesso comma 4 art. 18 l. cit.);
- il fatto contestato, in mancanza di un contratto collettivo ovvero di un codice disciplinare che lo contempli, risulta intrinsecamente (sulla base dei fatti esposti) inidoneo a giustificare il licenziamento, poiché il fatto addotto dal datore di lavoro non costituisce violazione di quei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro secondo quella “tipizzazione sociale” già descritta dalla costante giurisprudenza di legittimità;
- il fatto contestato, pur risultando, alla luce di quanto addotto dal datore di lavoro nella contestazione d’addebito, astrattamente idoneo a giustificare il licenziamento (stante la descrizione di una condotta la quale è sanzionata dal contratto collettivo applicato con il provvedimento espulsivo ovvero stante la descrizione di un comportamento che comunque costituisce violazione di doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro), ciononostante si rivela, all’esito dell’istruttoria, inesistente in quanto mai accaduto, ovvero insussistente in quanto il lavoratore non lo ha commesso o non è a lui imputabile (poiché dovuto a caso fortuito, forza maggiore, fatto di terzo).
La sanzione meno gravosa della c. d. tutela indennitaria forte invece riteniamo debba essere applicata invece a fronte della seguente fattispecie, la quale si caratterizza per la violazione dei “limiti esterni” del potere di recesso del datore di lavoro:
- il fatto contestato, pur essendo dimostrato nei suoi elementi costituitivi (sussistenza dell’elemento oggettivo e dell’elemento soggettivo) e pur essendo “astrattamente grave” (in quanto espressamente sanzionato dal CCNL applicato con il provvedimento espulsivo o in quanto integra, comunque, la violazione di doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro), all’esito dell’istruttoria, si dimostra inidoneo a concretizzare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo soggettivo, a fronte della sussistenza di alcune circostanze di contorno del fatto stesso, le quali (senza far venir meno il fatto giuridico) attengono alla colorazione di contesto rendendo meno grave la violazione in sé (come ad esempio le attenuanti rappresentate dall’avere cagionato un danno patrimoniale di speciale tenuità, la provocazione, il pentimento, la riparazione del danno, l’assenza di precedenti, ecc.).
4. La graduazione progressiva delle sanzioni nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento per motivi economici
4.1. Il duplice livello di valutazione del Giudice
Come detto in apertura di questo contributo, il novellato art. 18 ha introdotto una graduazione delle tutele che riguarda, senza sostenere alcuna separazione ontologica tra le due fattispecie, sia il licenziamento intimato per ragioni soggettive sia quello fondato su ragioni oggettive.
Per quanto riguarda il licenziamento per ragioni oggettive o, più precisamente, quello fondato su “motivi economici”, poiché solo di questa sottocategoria ci occuperemo, l’attuale art. 18, al comma 7, prevede ugualmente due tipi di sanzioni: la prima, quella della «reintegra attenuata» di cui al comma 4, per l’ipotesi in cui il Giudice «accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo»; la seconda, la tutela «indennitaria forte» prevista dal comma 5, applicabile «nelle altre ipotesi in cui [il Giudice] accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo».
Alla luce della specularità di tale disciplina sanzionatoria rispetto a quella prevista per il licenziamento disciplinare viziato, è nostra convinzione che anche nell’ambito dei c.d. licenziamenti per motivi economici i concetti di “limiti interni” e “limiti esterni” (secondo la nozione sopra richiamata) possano risultare assai utili nel cercare di definire con maggior efficacia i contenuti di quel duplice giudizio valutativo che il Giudice, anche con riguardo a tale tipo di licenziamento, è chiamato ad effettuare al fine di graduare le tutele fra reintegra e risarcimento.
Innanzitutto, appare agevolmente riscontrabile che l’art. 3 della legge 604/1966, nell’affermare che “il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato […] da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, pone il giustificato motivo oggettivo in funzione di vero e proprio “limite” nei confronti dell’esercizio del potere di recesso esercitabile dal datore di lavoro; ed infatti la dottrina più attenta ha rilevato che:«il primo dato pacifico in giurisprudenza concerne la natura e la funzione del giustificato motivo oggettivo (:) nella stragrande maggioranza delle decisioni i giudici ritengono, infatti, che, laddove richiama le ‘ragioni tecniche, organizzative e produttive’ (e ‘sostitutive’), la legge voglia porre un limite ai poteri e alle libertà del datore di lavoro e demandare al sindacato giudiziale il compito di verificarne il rispetto»[15].
La valutazione che il Giudice compie sul rispetto, da parte del datore di lavoro, di questo “limite”, si articola sicuramente su due livelli: un primo livello di giudizio è volto a verificare se, dall’esclusivo angolo di visuale del datore di lavoro, possano dirsi sussistenti le “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” indicate dall’art. 3 l. 604/1966; il secondo livello di giudizio è orientato invece ad indagare se, nella vicenda del caso concreto, tenuto conto delle ragioni tecnico-produttive addotte del datore di lavoro, ma anche in considerazione dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro (e ciò alla luce dei principi generali di lealtà e correttezza ex art. 1175 c.c. e buona fede ex art. 1375 c.c.), sarebbe stato possibile salvaguardare il posto di lavoro senza un apprezzabile sacrificio per gli interessi dell’impresa[16].
Il primo dei suddetti livelli di giudizio attiene, a nostro avviso, ad una valutazione sul rispetto dei “limiti interni” del potere di recesso del datore di lavoro, secondo la definizione già utilizzata nel precedente paragrafo (§ 3), ossia viene effettuato un controllo volto a verificare la sussistenza o meno di quella fattispecie (rappresentata dalle “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”) in considerazione della quale la legge, accordando al datore di lavoro il potere di recesso, ha risolto “in astratto” a favore di quest’ultimo il conflitto di interessi tra la libertà del datore di lavoro di organizzare a proprio piacimento l’attività produttiva ed il contrapposto interesse del lavoratore alla conservazione del posto. Come già si è detto in precedenza con riguardo al licenziamento disciplinare, l’eventuale accertamento della carenza di una tale fattispecie giustificatrice del potere di recesso finisce per denunciare una sorta di carenza di potere di recesso del datore di lavoro, che in principio non aveva il potere in quanto non si erano verificate le circostanze al ricorrere delle quali esso sarebbe legittimamente sorto.
Il secondo dei predetti livelli di giudizio attiene, invece, a nostro avviso, ad una valutazione sul rispetto dei “limiti esterni” del potere di recesso del datore di lavoro e ciò in quanto, con tale giudizio, il Giudice è chiamato a verificare se, “in concreto”, quella fattispecie astratta tipizzata (la quale in partenza, e cioè in astratto, attribuiva prevalenza all’interesse al recesso del datore di lavoro rispetto all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto) alla luce di tutte le circostanze di contorno del fatto e di colorazione del contesto, faccia ancora ritenere prevalente “a posteriori” l’interesse al recesso del datore di lavoro rispetto all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto. Come già si è detto in precedenza con riguardo al licenziamento disciplinare, l’eventuale accertamento della violazione di tale “limite esterno” finisce sostanzialmente per evidenziare non tanto una sorta di carenza di potere di recesso del datore di lavoro (il potere infatti è sorto in astratto, in presenza delle circostanze previste per la sua esistenza), ma piuttosto una fattispecie di illegittimità dell’atto di recesso per eccesso o abuso di potere. Ed infatti, richiamando ancora una volta la dottrina civilistica sui poteri privati, «di vero e proprio abuso si dovrebbe parlare quando un comportamento pur astrattamente corrispondente al contenuto formale e sostanziale del diritto, si sia determinato, in concreto, prescindendo dalla considerazione di un interesse altrui, che il sistema pone in funzione di limite (esterno, perché) incidente non già sul quantum (cioè sull’estensione), bensì sul come (e perciò sulle modalità dell’esercizio) del diritto stesso»[17].
Ebbene, a nostro modo di vedere, nel caso di licenziamento per motivi economici, rientra nel livello di giudizio attinente ai “limiti interni” del potere di recesso del datore di lavoro la valutazione di tre distinti aspetti: l’effettiva sussistenza delle modifiche organizzative addotte; la loro concreta incidenza sulla posizione rivestita dal lavoratore in azienda; la serietà e non pretestuosità delle modifiche organizzative stesse.
Rientra, invece, nel livello di giudizio attinente ai “limiti esterni” del potere di recesso del datore di lavoro il sindacato avente per oggetto la conformità della scelta effettuata dal datore di lavoro ai principi di correttezza e buona fede, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., e dunque la valutazione circa due elementi: da una parte, il corretto assolvimento dell’onere di repêchage da parte del datore di lavoro; dall’altra, l’aver diretto il potere di recesso verso un lavoratore piuttosto che un altro nel caso in cui l’innovazione organizzativa sia suscettiva di ripercuotersi su una pluralità di posizioni contrattuali fra loro equivalenti e fungibili (es. riduzione del personale addetto ad uno specifico reparto).
Ed allora, volendo anche qui tratteggiare, sulla base dell’applicazione del sopra indicato “doppio livello” di valutazione, una ripartizione fra le fattispecie assoggettabili, da un lato, alla tutela “reintegratoria” di cui al combinato disposto dei commi 7 e 4 art. 18, e dall’altro lato al rimedio “risarcitorio” di cui al combinato disposto dei commi 7 e 5, si potrebbe ipotizzare la seguente suddivisione: debbono essere assoggettati al regime della «reintegra attenuata» i casi di licenziamento illegittimo per violazione dei “limiti interni” del potere di recesso del datore di lavoro; debbono invece essere assoggettati al regime della «tutela indennitaria forte» i casi di licenziamento illegittimo per violazione dei “limiti esterni” del potere di recesso del datore di lavoro.
Le seguenti puntualizzazioni possono essere utili a dimostrare la concretezza della suddivisione ipotizzata.
4.2. La valutazione sul rispetto dei c.d. “limiti interni” nel licenziamento per motivi economici
Come si è detto, nell’ambito del giudizio attinente ai “limiti interni” è necessario verificare se il datore di lavoro possa dimostrare l’effettiva sussistenza delle modifiche organizzative addotte; ciò significa, così come acutamente rilevato in dottrina[18], che il datore di lavoro dovrà fornire la dimostrazione della presenza di un quid novi, cioè di un oggettivo mutamento verificatosi nella sfera organizzativa del lavoro, come ad esempio l’introduzione di nuovi macchinari i quali soppiantino o riducano lo svolgimento di determinate mansioni all’interno dell’azienda, la soppressione di talune mansioni, lo smantellamento di un macchinario e delle relative mansioni, l’esternalizzazione di attività e via dicendo[19].
Occorre poi, in secondo luogo, che il datore di lavoro possa dimostrare la sussistenza di un nesso di causalità fra la modifica organizzativa apportata e la posizione contrattuale del lavoratore la cui attività deve essere direttamente investita (Cass. 14 marzo 1993, n. 2596; Cass. 4 maggio 1991, n. 4891; Cass. 11 aprile 1990, n. 3055); secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante, tuttavia, il controllo del Giudice non può avere ad oggetto il carattere socialmente opportuno della modifica, ovvero la validità dei criteri di gestione dell’impresa o l’opportunità nel merito della scelta operata dall’imprenditore e ciò in quanto la scelta circa i criteri di gestione dell’impresa è espressione della libertà di iniziativa economica privata tutelata dall’art. 41 Cost.: del resto, tale orientamento giurisprudenziale pare oggi trasposto nella stessa lettera della legge, all’art. 30, comma 1, legge 183/2010.
Come si diceva in precedenza, poi, fra gli elementi che il Giudice è chiamato a valutare nell’ambito del proprio giudizio sui “limiti interni” vi sono anche la “serietà” e la “non pretestuosità” delle modifiche organizzative addotte dal datore di lavoro. Sennonché in giurisprudenza, accanto all’affermazione secondo cui «il licenziamento per motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva è scelta riservata all'imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell'azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità» (Cass. 22 agosto 2007, n. 17887), si ritrova talvolta anche la seguente affermazione: «il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nella previsione della seconda parte dell'art. 3 l. 15 luglio 1966 n. 604, comprende anche l'ipotesi di un riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore, non pretestuosamente e non semplicemente per un incremento di profitto, bensì per far fronte a sfavorevoli situazioni» (Cass. 24 febbraio 2012, n. 2874).
In dottrina, allora, si suole dare atto dell’esistenza in giurisprudenza di due orientamenti esegetici contrapposti[20]. Secondo il primo orientamento, in caso di riorganizzazione o ristrutturazione aziendale – ferma restando la necessità della prova della effettività del relativo processo – sarebbe legittima ogni ragione, in senso economico, che lo abbia determinato, non potendosi escludere né le esigenze di mercato né il perseguimento di profitti attraverso modifiche organizzative. Secondo l’orientamento contrapposto, invece, le ragioni che potrebbero integrare il giustificato motivo oggettivo sarebbero soltanto quelle dirette a fronteggiare situazioni aziendali sfavorevoli che incidono negativamente sulla normale attività produttiva ed impongono la riduzione dei costi al fine di salvaguardare gli equilibri economici dell’impresa, con esclusione invece dei riassetti organizzativi non richiesti dalla crisi economica dell’azienda e/o aventi una finalità meramente strumentale all’incremento del profitto.
Ebbene, alla prevalenza degli interpreti è parso maggiormente condivisibile il primo dei due orientamenti e ciò in quanto, così come ha affermato la giurisprudenza, «a fronte di un effettivo (e dimostrato) processo di ristrutturazione e riorganizzazione dell’azienda, non può distinguersi tra le ragioni determinate da fattori esterni all’impresa, o di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell’impresa, o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto» (Cass. 11 aprile 2003, n. 5777); opinare diversamente, infatti, «significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dal richiamato art. 41, per il quale l'organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell'apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il "naturale" interesse ad ottimizzare l'efficienza e la competitività» (Cass. 10 maggio 2007, n. 10672).
Tale ultimo orientamento pare senz’altro condivisibile, tuttavia riteniamo che la modifica organizzativa addotta dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento debba essere pur sempre “seria” e “non pretestuosa”, poiché diversamente il potere di recesso del datore di lavoro finirebbe per violare i propri “limiti interni” e dunque per generare una situazione di radicale carenza. E così, crediamo che in taluni limitati casi il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per poter risultare non pretestuoso (e dunque affinché il potere di recesso non violi i propri “limiti interni”), debba effettivamente muovere dall’esigenza di fronteggiare situazioni aziendali sfavorevoli che incidono negativamente sulla normale attività produttiva ed impongono la riduzione dei costi al fine di salvaguardare gli equilibri economici dell’impresa.
Ci riferiamo al caso in cui il licenziamento venga deciso dal datore di lavoro al mero fine di conseguire quel risparmio di spesa relativo al solo costo del lavoro del dipendente licenziato e non appaia invece conseguenza di una più articolata riorganizzazione aziendale volta ad ottenere utilità superiori; tale ampia e legittima riorganizzazione, infatti, non può essere limitata alla semplice estromissione di una unità lavorativa e dovrebbe invece essere dimostrata dall’intervento su altri aspetti dell’organizzazione produttiva o lavorativa, e appunto giustificata da quel quid novi di cui parla la dottrina. Il licenziamento del singolo dipendente al fine di risparmiare il costo del suo lavoro, infatti, per non risultare pretestuoso e quindi carente di una obiettiva ragione inerente l'attività produttiva, deve potersi giustificare alla luce dell’esigenza di fronteggiare situazioni aziendali sfavorevoli che incidono negativamente sulla normale attività ed impongono la riduzione dei costi al fine di salvaguardare gli equilibri economici dell’impresa. Difatti, solo in un simile contesto, una volta accertata l'effettiva necessità della riduzione dei costi in un determinato settore di lavoro, anche la modestia del risparmio in rapporto al bilancio aziendale potrebbe ritenersi, nel caso di specie, “seria e non pretestuosa”, poiché ogni risparmio che sia in esso attuabile si rivela in diretta connessione con tale necessità e quindi da questa oggettivamente giustificato (così argomentano Cass. 24 febbraio 2012, n. 2874 e Cass. 10 maggio 1986, n. 3127).
Allo stesso modo, ci pare che possa definirsi chiaramente “non seria” e “pretestuosa”, se non addirittura del tutto insussistente, la modifica organizzativa consistente nella mera sostituzione di un lavoratore con un altro meno costoso (anche se apprendista); in tali casi, infatti, così come ha ben evidenziato la giurisprudenza «il recesso non si inserisce in una diversa organizzazione aziendale intesa al mantenimento o al potenziamento del livello di produttività o di competitività dell'azienda, essendo invece unico obbiettivo dell'imprenditore quello di conseguire un risparmio sulle retribuzioni al personale dipendente attraverso la sostanziale elusione degli obblighi contrattuali assunti nei confronti di questo» (Cass. 17 marzo 2001, n. 3899).
In altre parole, in capo al datore di lavoro che licenzi un dipendente soltanto per sostituirlo con un altro che ricopra le medesime mansioni ma in modo meno costoso (anche banalmente in quanto dotato di minore anzianità di servizio), non potrà dirsi legittimamente sorto il potere di recesso, poiché il “limite interno” consistente nell’effettiva sussistenza della riorganizzazione è stato violato: non esiste, infatti, alcun quid novi organizzativo nella mera sostituzione soggettiva di un lavoratore con un altro, a parità di tutte le altre condizioni[21]. A tal proposito, si menziona la particolare pronuncia della Suprema Corte del 24 febbraio 2012, n. 2874, nella quale è stato ritenuto legittimo il licenziamento di tre lavoratori sostituiti da due apprendisti, meno costosi, e questo perché tale licenziamento non si configurava come estemporanea manovra di risparmio operata dall’imprenditore per il mero aumento del profitto, bensì si collocava in un più ampio “quadro di delocalizzazione produttiva all’estero e della successiva correzione dell’attività d’impresa”.
Pare quindi di poter ribadire quanto supra esposto, ossia che la valutazione della sussistenza ed effettività del quid novi, “limite interno” su cui si fonda il sorgere stesso del potere di recesso per motivo economico, si atteggi in modo diverso a seconda che la riorganizzazione avvenga con il fine di fronteggiare una situazione di crisi oppure con l’obiettivo di incrementare il profitto. Se infatti, nel primo caso, anche una semplice contrazione del personale che assicuri un risparmio effettivo all’impresa in difficoltà può essere legittima senza l’adozione di altre modifiche organizzative se non quella relativa alla gestione del lavoro, qualora invece l’imprenditore adotti misure volte ad incrementare il profitto, tale operazione può compiersi solo a fronte di un quid novi che non sia semplicemente la riduzione del personale per risparmiare i costi del lavoro, bensì possa essere identificata con una riorganizzazione, un’innovazione tecnologica, un nuovo schema produttivo.
4.3. La valutazione sul rispetto dei c.d. “limiti esterni” nel licenziamento per motivi economici
Da ultimo, ci pare importante una puntualizzazione anche con riguardo al giudizio attinente ai “limiti esterni”.
Si è detto che la valutazione in ordine al corretto assolvimento dell’onere di repêchage da parte del datore di lavoro e la valutazione circa la scelta del dipendente da rimuovere nel caso in cui l’innovazione organizzativa sia suscettiva di ripercuotersi su una pluralità di posizioni contrattuali fra loro equivalenti e fungibili (es. riduzione del personale addetto ad un reparto) attengono al sindacato sui “limiti esterni” dell’esercizio del potere di recesso del datore di lavoro. E ciò in quanto, a nostro modo di vedere, con tale giudizio, dopo aver valutato se, dall’esclusivo angolo di visuale del datore di lavoro, possano dirsi sussistenti le “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” indicate dall’art. 3 L. 604/1966 (valutazione sui “limiti interni”) il Giudice è chiamato a verificare se, in concreto, quella fattispecie astratta tipizzata (la quale in partenza, e cioè in astratto, attribuiva prevalenza all’interesse al recesso del datore di lavoro rispetto all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto), faccia ancora ritenere prevalente a posteriori, cioè alla luce di tutte le circostanze di contorno del fatto e di colorazione del contesto, l’interesse al recesso del datore di lavoro rispetto all’interesse del lavoratore alla conservazione del posto.
Ebbene, come viene comunemente indicato in dottrina, il c.d. obbligo di ricollocazione è una creazione della giurisprudenza, la quale ha individuato la fonte di tale obbligo nel necessario contemperamento degli interessi coinvolti[22]. Secondo Cass. SS.UU. 7 agosto 1998, n. 7755, infatti, «…l'interpretazione e l'esecuzione del contratto secondo buona fede richiedono altresì di considerarne la funzione in rapporto all'interesse di entrambe le parti e perciò a tener conto, con riguardo alle singole obbligazioni che ne derivano, non soltanto della situazione di debito ma anche dei comportamenti accessori dovuti dal creditore ed idonei a facilitare l'adempimento […] Sarà perciò il giudice di merito che, avuto riguardo alle residue capacità di lavoro del prestatore ed all'organizzazione dell'azienda come definita insindacabilmente dall'imprenditore, valuterà la persistenza dell'interesse di questo alla prestazione lavorativa, secondo buona fede oggettiva.».
Allo stesso modo, nel caso in cui l’innovazione organizzativa sia suscettiva di ripercuotersi su una pluralità di posizioni contrattuali fra loro equivalenti e fungibili, la giurisprudenza, facendo nuovamente appello ai medesimi principi, ha affermato che «in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, ai sensi dell'art. 3 l. n. 604 del 1966, se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, - in relazione al quale non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, né il criterio della impossibilità di "repêchage" - il datore di lavoro deve pur sempre improntare l'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche del recesso di una di esse.» (di recente Cass. 15 maggio 2012, n. 7509). Assai significativamente, la giurisprudenza ha pure precisato che «può quindi affermarsi che in ogni ipotesi di giustificato motivo oggettivo che determini causalmente non i singoli licenziamenti, ma solo il gruppo di dipendenti entro il quale devono essere intimati, ad una catena causale si affianca un potere di scelta limitato dalle regole di correttezza» (Cass. 4 marzo 1993, n. 2595)[23].
Non vi è dubbio dunque che il principio di buona fede in senso oggettivo operi come un “limite” nei confronti di qualunque situazione giuridica di potere. E non vi è dubbio, inoltre, che il “limite” costituito dall’operatività del principio rappresenti un limite di tipo “esterno” della situazione giuridica soggettiva; ricordiamo, infatti, che secondo la definizione qui richiamata i «limiti esterni…non riguardano infatti il diritto in sé – in quella cioè che ne costituisce la struttura fisionomica – ma singole situazioni di diritto in circostanze particolari. Si ricollegano infatti alla più o meno occasionale o accidentale coesistenza di situazioni di vantaggio o impongono invece al titolare del diritto (nel senso del non potere se non a certe condizioni o in un certo modo) la considerazione anche di un interesse altrui; incidono pertanto non già, ed ab origine, sull’estensione del contenuto ma, una volta, solo sul concreto esercizio del diritto paralizzandolo in varia misura»[24].
Un’ultima considerazione.
Si è detto che è nostra convinzione che nell’attuale sistema di graduazione progressiva di sanzioni previsto anche con riguardo ai c.d. licenziamenti per motivi economici dal novellato art. 18 l. 300/70, si possa affermare la seguente ripartizione: le violazioni dei “limiti interni” ricadono sotto l’applicabilità della sanzione più gravosa costituita dalla «reintegrazione attenuata», mentre le ipotesi di violazione dei “limiti esterni” (derivanti dall’operatività del principio di buona fede e correttezza) ricadono invece nell’ambito di applicabilità della meno gravosa sanzione rappresentata dalla «tutela indennitaria forte».
Ebbene, a tal riguardo, pare davvero significativo rilevare che già in passato, proprio in riferimento alla fattispecie del licenziamento per motivi economici, e proprio con riguardo ad una ipotesi in cui, a fronte di una reale e dimostrata riorganizzazione del datore di lavoro, si discuteva unicamente di “rispetto dei principi di correttezza e buona fede” da parte del datore di lavoro (e ciò in relazione all’individuazione del lavoratore su cui sarebbe dovuta cadere la scelta da parte del datore di lavoro ai fini del licenziamento), la giurisprudenza aveva già avvertito l’esigenza di applicare al caso di licenziamento illegittimo per violazione dei doveri di correttezza una sanzione diversa dalla reintegrazione prevista dall’allora articolo 18 l. 300/70: ci riferiamo alla “innovativa” sentenza 4 marzo 1993, n. 2595, in cui la Cassazione affermò che, stante la tipicità delle cause di invalidità del licenziamento, l’atto compiuto in violazione del principio di correttezza (per errata individuazione del lavoratore su cui sarebbe dovuta cadere la scelta da parte del datore di lavoro ai fini del licenziamento) non poteva dirsi invalido ma soltanto illecito in ragione delle scorrette modalità di esercizio del potere. Così, a fronte della sussistenza di una riorganizzazione, dell’effettivo nesso di causalità tra detta riorganizzazione e il ruolo di un gruppo di lavoratori, e dell’errata scelta, all’interno di quel gruppo, del lavoratore licenziato, la Suprema Corte ha dichiarato il licenziamento non già invalido per l’assenza di giustificato motivo oggettivo (e dunque sanzionabile con l’unica conseguenza sanzionatoria allora vigente, la reintegra), bensì soltanto contrario al principio di correttezza, il che, secondo la Corte, non poteva che dare luogo ad una sanzione diversa, ossia quella ordinaria civilistica di risarcimento del danno contrattuale[25].
Segnaliamo inoltre che di recente, dopo l’entrata in vigore del novellato art. 18 L. 300/70, sono numerose le pronunce dei giudici di merito che, con riguardo alla violazione dei principio di buona fede, per mancato assolvimento del c.d. obbligo di repêchage, hanno ritenuto applicabile la sola “tutela indennitaria forte” (prevista dal combinato disposto di cui ai commi 7 e 5 art. 18 l. cit.) escludendo dunque la reintegra[26].
4.4. Le nostre conclusioni sulla graduazione di tutele nel licenziamento per motivi economici
A questo punto, dimostrato dunque che è possibile, attraverso l’impiego dei concetti, già noti in dottrina, di limiti “interni” ed “esterni” delle situazioni giuridiche soggettive di potere, individuare il campo d’intervento di ciascuna delle due sanzioni previste dal novellato art. 18 l. cit. ci pare anche che gran parte degli interrogativi sorti sull’esatto significato giuridico da attribuire alla parola “manifesta” (laddove, nel 7° comma dell’art. 18, è stata affiancata dal legislatore all’espressione “insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”) perdano di reale consistenza. Tale termine infatti, a nostro avviso, rappresenta più che altro una formula d’enfasi per segnare, nella particolarità del momento storico in cui tale passo è stato compiuto, l’importante passaggio da un regime sanzionatorio a sanzione unica ad un sistema sanzionatorio con graduazione di sanzioni.
Nella valutazione sul rispetto del c.d. “limite interno” è infatti connaturata una valutazione sulla “manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” e ciò in quanto, come supra si è cercato di dimostrare, tale valutazione sul rispetto del “limite interno” deve essere compiuta dal giudice per stabilire se, già ad un primo livello di analisi, guardando la fattispecie dall’esclusivo angolo di visuale del datore di lavoro (e cioè dall’angolo di visuale della sola realizzazione degli interessi del datore di lavoro a cui l’atto di licenziamento dovrebbe essere destinato), il recesso si presenti dotato oppure privo di una “ragione inerente all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. A questo punto, come detto, potrebbe accadere che già all’esito di tale primo livello di analisi, e dunque già all’esito di una valutazione compiuta dall’esclusivo angolo di visuale del datore di lavoro, il licenziamento si riveli ingiustificato, in considerazione dell’insussistenza delle modifiche organizzative addotte, dell’assenza di incidenza di tale modifica sulla posizione rivestita dal lavoratore in azienda, ovvero per l’evidenziarsi di una pretestuosità delle modifiche organizzative addotte (pretestuosità che, come indicato in precedenza, potrebbe emergere nel caso di un licenziamento effettuato al solo scopo di risparmiare il costo del lavoro relativo al dipendente in assenza di altri interventi riorganizzativi e senza che la società si trovi a fronteggiare difficoltà economiche; ovvero potrebbe emergere nel caso di licenziamento effettuato per la mera sostituzione di un lavoratore con un altro meno costoso). In altre parole, ci pare che ben possa dirsi “manifestamente insussistente”, senza necessità di altre specificazioni, ciò che non può essere riscontrato neppure se lo si valuta dall’esclusivo angolo di visuale del datore di lavoro, senza nemmeno avere bisogno di compiere alcuna ulteriore indagine circa la prevalenza in concreto dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto su quello del datore al recesso.
In conclusione, volendo, anche con riguardo al licenziamento per motivi economici, riassumere schematicamente le suddivisioni elaborate secondo la ricostruzione teorica sin qui esposta, possiamo dire che la sanzione più gravosa della reintegra (attenuata) dovrebbe essere applicata in presenza delle seguenti fattispecie, le quali si caratterizzano per il fatto che il potere di recesso sia stato esercitato dal datore di lavoro in violazione dei “limiti interni”:
- insussistenza delle modifiche organizzative addotte;
- assenza di una loro concreta incidenza sulla posizione rivestita dal lavoratore in azienda;
- non serietà e pretestuosità delle modifiche organizzative addotte, come ad esempio nei seguenti casi:
a) nel caso in cui il licenziamento risulti effettuato senza l’apporto di un quid novi dal punto di vista organizzativo e produttivo se non il mero risparmio sul costo del lavoro ed inoltre il datore di lavoro non possa giustificare l’esigenza della riduzione del costo del personale con la necessità di fronteggiare difficoltà economiche;
b) nel caso in cui il licenziamento risulti effettuato senza che vi sia un quid novi dal punto di vista organizzativo e produttivo se non la mera sostituzione, nella medesima mansione, di un lavoratore con un altro meno costoso.
La sanzione meno gravosa della c.d. tutela indennitaria attenuata, invece, dovrebbe essere applicata alle seguenti fattispecie le quali si caratterizzano per il fatto che il potere di recesso sia stato esercitato dal datore di lavoro in violazione dei “limiti esterni”:
- mancato assolvimento dell’onere di repêchage da parte del datore di lavoro;
- errata applicazione dei criteri di scelta nel caso in cui l’innovazione organizzativa sia suscettiva di ripercuotersi su una pluralità di posizioni contrattuali fra loro equivalenti e fungibili (es. riduzione del personale addetto ad un reparto).
5. Cenni conclusivi
Il presente contributo cerca di seguire un percorso argomentativo articolato intorno al nodo centrale della classificazione dei diversi ordini di limiti ravvisabili nel potere di recesso che l’ordinamento riconosce al datore di lavoro.
Il punto di partenza è un problema concreto, all’ordine del giorno nelle Aule di Tribunale e quindi di primario interesse per gli operatori del diritto: l’individuazione di categorie e confini per quanto possibile certi all’interno dell’interpretazione applicativa della nuova articolazione delle conseguenze del licenziamento illegittimo a seguito della riforma dell’art. 18, l. 300/1970. Prendendo le mosse da ricostruzioni non immuni da punti deboli e quindi difficilmente adottabili come univoca chiave di lettura, si è scelto di raccogliere spunti tanto isolati quanto interessanti e di cercare di ricondurre la distinzione tra le diverse ipotesi di vizi del licenziamento all’interno di una solida impostazione che affonda le radici in istituti della teoria generale del diritto. Peraltro va detto che neppure la recente pronuncia della Corte di Cassazione (Cass. 6 novembre 2014, n. 23669 pronunciata del Collegio in data 24 settembre 2014) ha contribuito a sciogliere in modo convincente i numerosi nodi interpretativi legati all’applicazione della graduazione di tutele stabilita dal novellato articolo 18; in tale pronuncia, infatti, vi è, a quanto pare, la mera adesione ad un orientamento interpretativo (quello del c.d. “fatto materiale”), senza offrire tuttavia alcun argomento per superare i notevoli punti deboli che affliggono un tale orientamento.
Partendo dunque dal licenziamento disciplinare (in cui il problema pratico applicativo è parso maggiormente visibile e ciò a fronte delle debolezze della contrapposizione esegetica tra “teoria del fatto materiale” e “teoria del fatto giuridico”) si è voluto ricercare una “terza via” interpretativa, e la teoria dei “limiti interni” ed “esterni” al potere di recesso ci è parsa una chiave di lettura efficace cui ricollegare, non solo con riguardo al licenziamento disciplinare ma anche con riguardo al licenziamento per motivi economici, le varie ipotesi sanzionatorie graduate dalla novella legislativa.
Nell’argomentare il presente contributo ci si è certamente resi conto che non è sempre facile collocare una circostanza della realtà concreta all’interno dell’una piuttosto che dell’altra categoria, tuttavia, pare di aver individuato un’opzione interpretativa interessante, laddove si cerca di prendere il più possibile le distanze da un’incerta analisi delle caratteristiche del fatto e della sua sussistenza o insussistenza, per spostare invece l’attenzione sul potere, sui limiti posti al suo sorgere e al suo esercizio e sulle conseguenze che dalle violazioni di tale limiti possono derivare, in una lettura volta innanzitutto a non smarrire la ratio della novella del 2012, ossia la creazione di un sistema articolato e graduato di sanzioni del licenziamento illegittimo.
* Avvocato nel Foro di Reggio Emilia, Studio Legale Sutich-Barbieri-Sutich.
** Avvocato nel Foro di Reggio Emilia, Studio Legale Sutich-Barbieri-Sutich. Dottore di Ricerca in Relazioni di Lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia.
Con l’obiettivo di un reciproco confronto e al fine di stimolare il dibattito sui temi trattati, di seguito gli indirizzi di posta elettronica degli Autori: lorenzo.carletti@sbslex.it; sabrina.grivet@sbslex.it
[1] Per citare soltanto alcune delle prime reazioni alla riforma, cfr. A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, in RIDL, 2, 2012, 415 ss.; F. Carinci, Complimenti, dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, in LG, 2012, 528 ss.; C. Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in ADL, 3, 2012, 556 ss.; S. Magrini, Quer pasticciaccio brutto (dell’art. 18), in ADL, 3, 2012, 535 ss.
[2] Si veda, ad esempio, la proposta di M. Pedrazzoli, Generalizzazione dell'art. 18 vs indennità transattiva quando il licenziamento ha ragioni economiche, in Nel merito, 9 dicembre 2011. www.nelmerito.com
[3] Il primo ricorso ad una terminologia che contrapponesse le varie ipotesi di tutela previste dal nuovo art. 18 sulla base non solo della natura (reintegratoria o indennitaria), ma anche in considerazione dell’intensità di tale tutela si deve a A. Maresca, op. cit., 428 ss.
[4] R. Del Punta, La riforma italiana: i problemi del nuovo art. 18, in M. Pedrazzoli (a cura di), Le discipline dei licenziamenti in Europa. Ricognizioni e confronti, Franco Angeli, 2014, 14
[5] Questa è l’opinione espressa, in uno dei primi commenti alla riforma, da A. Maresca, op. cit., 438; tra gli altri sostenitori, M. Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, Cedam, 2012, 449 ss.; A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, 2012, 57 ss.; condivide la tesi, pur avvertendo sulle necessarie cautele, R. Romei, La prima ordinanza sul nuovo art. 18 della legge n. 300/1970: tanto rumore per nulla?, in RIDL, 2012, 4, 1072 ss.; R. De Luca Tamajo, Il licenziamento disciplinare nel nuovo art. 18: una chiave di lettura, in RIDL, 2012, 4, 1064 ss., il quale distingue la “insussistenza” materiale del fatto dalla sua “inconsistenza” giuridica. In giurisprudenza, tale impostazione è stata adottata da Trib. Voghera, ord. 16 marzo 2013 e Trib. Milano, ord. 23 aprile 2013. Si segnala, peraltro, che la teoria del “fatto materiale” appare condivisa dalla prima e per ora unica sentenza della Suprema Corte in materia, Cass. 6 novembre 2014, n. 23669 (pronunciata del Collegio in data 24 settembre 2014), ove il Giudice di legittimità, afferma che «occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato» (pubblicata sul sito www.dottrinalavoro.it); la Suprema Corte, tuttavia, stante anche il carattere sostanzialmente irrilevante della questione in diritto per la decisione del ricorso, non ha offerto approfondite argomentazioni idonee a superare le osservazioni critiche avanzate in dottrina con riguardo alla c.d. “teoria del fatto materiale” (teoria interpretativa a cui, come detto, pare abbia aderito la Suprema Corte).
[6] Così si è pronunciata appunto la prima giurisprudenza di merito, Trib. Bologna, ord. 15 ottobre 2012, poi seguita da Trib. Ravenna, ord. 18 marzo 2013; in dottrina cfr. V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in RIDL, 3, 2012, 555; O. Mazzotta, I molti nodi irrisolti del nuovo art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”, 159/2012, 17 s.; A. Perulli, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 St. Lav. Ratio ed aporie dei concetti normativi, in ADL, 4-5, 2012, 788; M. Del Conte – B. Fratello, La nuova disciplina delle tutele in caso di licenziamento illegittimo: il licenziamento per ragioni soggettive, in M. Persiani – S. Liebman (a cura di), Il nuovo diritto del mercato del lavoro, Utet, 2013, 331 s..
[7] MGL, n. 5, maggio 2014, 315, nota E. Gulino, Accertamento del fatto contestato e sua valutazione nella modulazione delle tutele prevista dall’art. 18 st. lav.
[8] L. Perina - S. Visonà, Il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo: dottrina e giurisprudenza alla ricerca di un punto di equilibrio della nuova disciplina del novellato art. 18, in AA. VV., La riforma del mercato del lavoro, Giappichelli, 2014, 231 ss., in particolare 235 s.
[9] L. Perina - S. Visonà, op.cit., 234
[10] Ibidem
[11] Così espressamente L. Bigliazzi Geri, Interesse legittimo: diritto privato, in Rapporti giuridici e dinamiche sociali. Principi, norme, interessi emergenti, Giuffré, 1998, 65 s., nota 121 (orig. in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, IX, 1993); similmente argomentano U. Natoli, La proprietà (Appunti delle lezioni), Giuffrè, 1976, 151; L. Bigliazzi Geri, Usufrutto uso e abitazione, in Rapporti giuridici e dinamiche sociali. Principi, norme, interessi emergenti, Giuffré, 1998, 627 ss., (orig. in Trattato Cicu-Messineo, 1979); L. Bigliazzi Geri – U. Breccia – F. D. Busnelli, Diritto civile. Vol. 1: Norme, soggetti e rapporto giuridico. Fatti e atti giuridici, Utet, 1986, 287 ss.
[12] Del resto, la stessa L. Bigliazzi Geri, Interesse legittimo…, 80, fa riferimento alla figura del potere di recesso del datore di lavoro e individua l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro come limite esterno all’esercizio di quel diritto, che deve esercitarsi secondo discrezionalità e non come arbitrio.
[13] Del resto, si noti che M. T. Carinci, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, in Trattato di Diritto Commerciale e di Diritto Pubblico dell’Economia diretto da F. Galgano, vol. XXXVI, Padova, 2005, 115 ss., nonché 132 ss., riconduce l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo all’interno dello schema della deviazione del negozio giuridico dalla sua causa tipica, configurandosi così una fattispecie di abuso del diritto. L’Autrice, peraltro, distingue, pur in assenza, al tempo, di una possibilità di diversificazione delle sanzioni, le ipotesi di invalidità da quelle di illiceità del licenziamento viziato.
[14] Il problema viene evidenziato da R. Riverso, Alla ricerca del fatto nel licenziamento disciplinare, http://csdle.lex.unict.it/archive/uploads/up_463149437.pdf, in particolare 7, il quale afferma che, in assenza della tipizzazione del fatto contestato all’interno del codice disciplinare, il Giudice dovrà applicare in ogni caso la tutela reintegratoria.
[15] M. T. Carinci, op. cit., 87
[16] Op. ult. cit., 125, afferma che questa struttura bifasica è propria del ragionamento e dell’argomentazione del Giudice innanzi alla fattispecie del licenziamento per motivi economici; O. Razzolini, I licenziamenti per motivi oggettivi, in M. Pedrazzoli (a cura di), Licenziamenti e sanzioni nei rapporti di lavoro, Cedam, 2011, 117.
[17] L. Bigliazzi Geri, Buona fede nel diritto civile, in Rapporti giuridici e dinamiche sociali. Principi, norme, interessi emergenti, Giuffré, 1998, 225 (orig. in Digesto delle Discipline Privatistiche, Sezione Civile, II, 1988)
[18] O. Razzolini, op. cit., 112
[19] A tal proposito, si vedano le varie ipotesi descritte da M. T. Carinci, op. cit., 12
[20] Cfr. E. Boghetich, I requisiti sostanziali. Il giustificato motivo oggettivo, in G. Pellacani (a cura di), I licenziamenti individuali e collettivi, Giappichelli, 2013, 176 ss.
[21] Su tali fattispecie, cfr. O. Razzolini, op. cit., 114 s.; M. T. Carinci, op. cit., 17 s.
[22] Cfr. M. Tatarelli, op. cit., 203, nota 34
[23] Più in generale, del resto, la giurisprudenza ha affermato che «In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase, sicché la clausola generale di buona fede e correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione di un contratto (art. 1375 c.c.), concretizzandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto. La buona fede, pertanto, si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell'altra parte.» (Così Cass. 7 giugno 2006, n. 13345; Cass. 18 ottobre 2004, n. 20399).
[24] L. Bigliazzi Geri, Interesse legittimo…, 65 s., nota 121
[25] «La distinzione tra l’ambito causale e quello della scelta si riflette sulle conseguenze della violazione delle regole che ad essi presiedono. Va, infatti, rilevato che, per la tipicità delle cause di invalidità, l’atto compiuto in violazione del principio di correttezza non è invalido ma illecito. Se quindi è invalido, per mancanza del nesso causale, il licenziamento di un dipendente estraneo al gruppo delimitato causalmente dal motivo addotto, è illecito – e in quanto tale può comportare obblighi risarcitori ma non le conseguenze associate dalla legge al licenziamento invalido – quello intimato in violazione del dovere di correttezza ad un lavoratore in detto gruppo compreso.» […] «nell'ipotesi in cui tale scelta risulti operata nell'ambito del gruppo dei lavoratori per i quali sia stata accertata la necessità di riduzione del personale, pur mancando un nesso causale tra questa e il licenziamento impugnato, la violazione dei suddetti doveri di correttezza comporta non l'invalidità del recesso (e dunque la reintegra), ma la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro secondo i principi generali del risarcimento del danno contrattuale» così Cass. 4 marzo 1993, n. 2595.
[26] Tra tutte, si segnalano Trib. Genova, 14.12.2013; Trib. Milano, Giudice del Lavoro Casella, 20.11.2012, Trib. Roma, Giudice del Lavoro Pagliarini, 08.08.2013, Trib. Varese, Giudice del Lavoro Fumagalli, 02-04.09.2013.
Scarica Articolo PDF