Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 23933 - pubb. 11/01/2020

Presupposti per la dichiarazione di fallimento

Cassazione civile, sez. I, 23 Marzo 2012, n. 4738. Pres. Fioretti. Est. Cristiano.


Fallimento - Investimenti aziendali - Nozione ai sensi dell'art. 1, comma secondo, lett. a), legge fall. - Regime conseguente al d.lgs. n. 5 del 2006 - Attivo patrimoniale degli ultimi tre esercizi - Rilevanza - Fondamento



In tema di presupposti per la dichiarazione di fallimento, agli effetti dell'art. 1, comma secondo, lett. a), legge fall., nel testo modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, applicabile "ratione temporis", nella nozione di investimenti nell'azienda non deve essere considerato il totale di quelli effettuati nel corso degli anni dall'imprenditore, posto che, a tale stregua, finirebbe con il divenire fallibile anche l'esercente un'attività di modestissime dimensioni protrattasi per lungo tempo, ma occorre verificare se l'attivo, che fa parte dello stato patrimoniale da indicare in bilancio ex art. 2424 cod. civ., negli ultimi tre esercizi sia stato o meno inferiore a 300.000 euro; infatti, il legislatore ha voluto che la ricorrenza di tale presupposto, complementare a quello dei ricavi, fosse riferita ad un periodo prossimo alla manifestazione dell'insolvenza, come confermato dalla circostanza che si tratta dello stesso periodo in relazione al quale, ai sensi del novellato art. 14 legge fall., l'imprenditore che richieda il proprio fallimento è tenuto a depositare presso la cancelleria del tribunale le scritture contabili e fiscali obbligatorie. (massima ufficiale)


Massimario Ragionato



 


Fatto

La Corte d'Appello di Messina, con sentenza del 14.7.09, ha accolto l'appello proposto da G.I.A.L. Strumentazioni s.r.l. avverso la sentenza dichiarativa del suo fallimento.

A sostegno della decisione, la Corte territoriale - premesso che il procedimento era disciplinato, ratione temporis, dal D.Lgs. n. 5 del 2006 - ha affermato che difettava il requisito soggettivo di fallibilità di cui alla L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a), nel testo modificato dall'art. 1 del citato d.lgs., in quanto la G.I.A.L non aveva effettuato investimenti superiori ad Euro 300.000. Ha, in particolare, osservato che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, fra gli investimenti non poteva essere inclusa la somma di Euro 360.375 (determinante ai fini del superamento della soglia di fallibilità), appostata al passivo dell'ultimo bilancio societario alla voce "debiti verso banche", neppure nel caso in cui avesse trovato corrispondenza in un vero e proprio finanziamento ricevuto dalla società e non nel mero, progressivo aumento dell'indebitamento dovuto alla necessità di far fronte a spese correnti di esercizio superiori ai ricavi: un'erogazione finalizzata all'investimento avrebbe infatti dovuto essere convertita in immobilizzazioni materiali od avrebbe integrato attivo circolante, sicchè, sommando il debito a tali voci dell'attivo, si sarebbe operata un'erronea duplicazione di poste.

Il giudice del merito ha infine precisato che, sul punto, non potevano condividersi le conclusioni del ctu, secondo cui la somma era stata, per l'appunto, utilizzata per acquistare merce che la società non era poi stata in grado di commercializzare, in quanto fra le immobilizzazioni materiali erano comprese rimanenze di magazzino per soli Euro 33.623.

La sentenza è stata impugnata dal curatore del Fallimento della G.I.A.L. Strumentazioni s.r.l. con ricorso affidato a due motivi.

La G.I.A.L. Strumentazioni s.r.l. e la creditrice istante Leica MicroSystem s.p.a. non hanno svolto difese.

 

Diritto

1) Con il primo motivo di ricorso il curatore deduce violazione e falsa applicazione del R.D. n. 267 del 1942, art. 1, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 1. Rileva che, escludendo che il debito verso le banche potesse rientrare fra gli investimenti, la Corte territoriale ha mostrato di aderire a non condivisibile orientamento secondo cui la nozione di investimento di capitale sostanzialmente coincide con l'attivo dello stato patrimoniale, mentre in tale nozione andrebbe ricompreso qualunque apporto di ricchezza, quale che sia la sua fonte (interna od esterna) e senza che a ciò osti che tale elemento sia desumibile dal passivo e non dall'attivo del bilancio.

2) Col secondo motivo, il ricorrente denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata. Osserva che il giudice d'appello, dopo aver ritenuto rilevanti ai fini della decisione esclusivamente i dati dell'attivo patrimoniale, ha omesso di considerare che, secondo quanto evidenziato dal ctu, tale attivo aveva superato la soglia di fallibilità negli esercizi compresi fra il 2001 ed il 2004. Rileva, altresì, che la Corte territoriale si è discostata dalle conclusioni del ctu senza tener conto di una circostanza decisiva, da questi accertata, ovvero che il finanziamento bancario era stato utilizzato dalla G.I.A.L., negli anni 2002 e 2003, per l'acquisto di merci ed era pertanto effettivamente servito ad incrementare l'attivo patrimoniale, e che il fatto che alla data del fallimento il debito verso le banche non trovasse corrispondenza nell'ammontare delle giacenze di magazzino era dipeso dalla vendita sottocosto dei prodotti in precedenza acquistati.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono infondati e devono essere respinti.

Come affermato da questa Corte in alcune, risalenti, ma, sul punto, ancora condivisibili pronunce, emesse nel vigore del vecchio testo della L. Fall., art. 1, (Cass. nn. 1471/71, 4733/83), al fine dell'assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale, per capitale investito nell'azienda deve intendersi ogni investimento, anche se frutto del cosiddetto "autofinanziamento", effettuato dall'imprenditore per l'acquisto di macchinari e di merci, per l'allestimento di negozi e di impianti, ed in definitiva la quantità di ricchezza immessa nell'attività commerciale. Il principio, contrariamente a quanto sembra ritenere il Fallimento ricorrente, non contrasta con quello assai più di recente enunciato - proprio con riguardo all'interpretazione della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a), introdotto dal D.Lgs. n. 5 del 2006 - da Cass. n. 22150/010, secondo cui la nozione di "capitale investito", rilevante per il riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore commerciale, all'esclusivo fine dell'individuazione del parametro dimensionale ostativo all'assoggettabilità a fallimento, coincide con l'attivo che fa parte dello stato patrimoniale da indicare in bilancio, ai sensi dell'art. 2424 c.c.: non v'è dubbio, infatti, che l'appostazione al passivo dello stato patrimoniale di un debito verso un soggetto, quale una banca, tipicamente preposto all'erogazione del credito, possa essere indicativo di un avvenuto finanziamento, utilizzato dall'imprenditore per l'acquisto di beni o servizi (anche immateriali) necessari all'esercizio della propria attività o semplicemente allocato in deposito in attesa di un suo impiego futuro; in tal caso, però, quantomeno alla data della sua insorgenza (ciò che, in definitiva, lo stesso ricorrente è costretto ad ammettere, laddove sostiene che la G.I.A.L. aveva, per l'appunto, utilizzato la somma ricevuta dalle banche per l'acquisto di merci, appostate al loro pieno valore nei bilanci degli esercizi 2002/2003, ma successivamente rivendute sottocosto) quel debito deve trovare corrispondenza in una o più poste dell'attivo del bilancio, dalle quali si ricavi che la banca (od altro eventuale soggetto finanziatore) ha effettivamente reso disponibile nuova liquidità e che questa è stata effettivamente investita nell'impresa.

La questione va allora, più correttamente, spostata sul piano temporale, essendo nella specie in discussione non tanto ciò che debba intendersi per "capitale investito" quanto se, secondo ciò che sostiene il ricorrente, ai fini della fallibilità dell'impresa, sia sufficiente accertare che la soglia dei trecentomila Euro indicata dall'articolo in esame è stata superata almeno una volta, al momento della costituzione dell'impresa o nel corso di un qualsiasi esercizio sociale (o, in alternativa, che il totale degli investimenti effettuati negli anni abbia superato tale soglia), o se invece, in analogia con quanto previsto dal medesimo art. 1. comma 2 alla lett. b, l'indagine debba essere limitata agli ultimi tre anni di attività. Questa Corte ritiene che, nel silenzio della norma, debba darsi preferenza a tale ultima soluzione.

Tenuto conto della finalità connessa alla riforma di cui al D.Lgs. n. 5 del 2006, che, secondo quanto può leggersi nelle premesse della relazione illustrativa, era volta, fra l'altro, ad ampliare in senso quantitativo il novero degli imprenditori commerciali esonerati dal fallimento, può in primo luogo escludersi, con assoluta tranquillità, che, ai fini della fallibilità, debba essere considerato il totale degli investimenti effettuati nel corso degli anni dall'imprenditore, posto che alla stregua di tale criterio finirebbe col divenire fallibile anche l'esercente un'attività di modestissime dimensioni, ma protrattasi per lungo tempo.

Con altrettanta tranquillità, può escludersi, poi, che la norma in esame faccia riferimento alla fase iniziale dell'impresa, che potrebbe essere così risalente da non trovare più alcun riscontro nell'attualità, persino in relazione all'oggetto dell'attività, mutato o circoscritto proprio in ragione di un andamento aziendale, e del volume d'affari che ne è, nel tempo, derivato, non rispondente alle originarie aspettative. Nè, in contrario, risulta rilevante l'argomento apparentemente desumibile dalla stessa relazione illustrativa, laddove si afferma che il criterio dell'ammontare degli investimenti si adatta maggiormente alla predetta fase, ma subito dopo si soggiunge "quando non sono ancora stati realizzati ricavi di rilievo". E' anzi proprio da tale inciso, interpretato nel contesto del periodo nel quale si inserisce (che chiarisce come il criterio sia complementare a quello dei ricavi e come quest'ultimo si attagli maggiormente ad un'attività di impresa in cui gli investimenti risalgono ad un tempo più lontano)"che può trarsi il convincimento che il legislatore abbia voluto che la ricorrenza dell'uno o dell'altro dei presupposti di fallibilità andasse accertata in relazione ad un periodo prossimo a quello in cui si è manifestata l'insolvenza. Peraltro, sempre nella relazione illustrativa, si precisa che sono stati scelti due criteri facilmente accertabili in sede prefallimentare, sia sulla base delle scritture contabili e dei registri fiscali, sia sulla base delle informative richieste di prassi alla Guardia di Finanza, ed è evidente che un'indagine concernente l'ammontare degli investimenti, se condotta per l'intera durata della vita dell'impresa, anzichè per un limitato arco temporale, potrebbe, al contrario, risultare estremamente difficoltosa, avuto riguardo non solo all'acquisizione, ma alla valutazione stessa dei dati. In tale contesto, l'opzione interpretativa volta a circoscrivere l'indagine in questione agli ultimi tre anni di attività appare l'unica non arbitraria, anche a voler tener conto dei soli elementi di riscontro ricavabili dal testo della L.Fall., così come riformato dal D.Lgs. n. 5 del 2006, in quanto - al di là di una ben possibile interpretazione estensiva dell'espressa previsione contenuta alla lett. b) del novellato art. 1 - è questo il periodo in relazione al quale, a mente del parimenti novellato art. 14, l'imprenditore che richiede il proprio fallimento è tenuto a depositare presso la cancelleria del tribunale le scritture contabili e fiscali obbligatorie.

La conclusione, peraltro, trova definitivo conforto nel c.d. decreto correttivo, che, come è noto, è stato emanato per chiarire e meglio definire la normativa introdotta dalla riforma, alla luce delle difficoltà operative che essa aveva suscitato, e nel quale, pertanto, la sostituzione del criterio degli investimenti con quello dell'ammontare dell'attivo patrimoniale annuo "dei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento" si pone in una linea di continuità, e non di rottura, con il precedente testo (Cass. n. 22150/010).

Nella specie, pertanto, non essendo contestato che l'attivo patrimoniale della G.I.A.L. negli ultimi tre esercizi sia stato inferiore alla soglia dei 300.000 Euro, il fallimento non poteva essere dichiarato.

Non v'è luogo alla liquidazione delle spese in favore della G.I.A.L. s.r.l. e della creditrice istante, che non hanno svolto difese.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2012.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2012.