Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 6276 - pubb. 01/08/2010

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Cassazione civile, sez. I, 11 Febbraio 1998, n. 1403. Est. Milani.


Società - Di persone fisiche - Società irregolare e di fatto - In genere - Socio recedente - Diritto alla liquidazione della quota - Domanda - Legittimazione passiva della società di fatto - Sussistenza - Fondamento - Ritardo nella corresponsione dell'importo - Risarcimento del danno - Svalutazione monetaria - Spettanza - Previo onere probatorio del creditore - Insussistenza - Fondamento.

Risarcimento del danno - Valutazione e liquidazione - Svalutazione monetaria - Società irregolare e di fatto - Socio recedente - Diritto alla liquidazione della quota - Domanda - Legittimazione passiva della società di fatto - Sussistenza - Fondamento - Ritardo nella corresponsione dell'importo - Risarcimento del danno - Svalutazione monetaria - Spettanza - Previo onere probatorio del creditore - Insussistenza - Fondamento.



La società di fatto, ancorché irregolare e non munita di personalità giuridica, è tuttavia soggetto di diritto, in quanto titolare di un patrimonio formato con i beni conferiti dai soci; con la conseguenza che detta società è passivamente legittimata rispetto alla domanda del socio receduto che chieda la liquidazione della sua quota. Inoltre, allorché - come nel caso di recesso del socio - la qualità di imprenditore commerciale svolta professionalmente dal medesimo risulti pacifica, nel caso di ritardo nella corresponsione dell'importo della quota a lui spettante, non si rende necessario, ai fini del riconoscimento del risarcimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all'indisponibilità dell'importo, ben potendosi dedurre , in tale situazione, in base all' "id quod plerumque accidit", che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo tale da essere sottratta agli effetti del deprezzamento monetario. (massima ufficiale)



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Michele CANTILLO - Presidente -
Dott. Mario Rosario MORELLI - Consigliere -
Dott. Francesco Maria FIORETTI - Consigliere -
Dott. Laura MILANI - Rel. Consigliere -
Dott. Giuseppe SALME - Consigliere -
ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
FUSTELLIFICIO CARPINE di CAPPELLETTI ZENO e ZOPPITELLI STEFANO, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, CAPPELLETTI ZENO, ZOPPITELLI STEFANO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA FEDERICO CESI 44, presso l'avvocato AGOSTINO GESSINI, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato MARCO SANTONI, giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrenti -
contro
PAOLANTONI MARIANO, elettivamente domiciliato in ROMA presso la CANCELLERIA CIVILE della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato RENATO CESARINI, giusta procura in calce alla copia del ricorso notificato;
controricorrente -
avverso la sentenza n. 238/94 della Corte d'Appello di PERUGIA, depositata il 12/10/94;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/97 dal Consigliere Dott. Laura MILANI; udito per il ricorrente, l'Avvocato Santoni, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo MACCARONE che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 2.1.1985 Mariano Paolantoni, premesso di essere stato socio per un terzo, insieme con Zeno Cappelletti e Stefano Zoppitelli, della s.d.f. Fustellificio Carpine, dalla quale era receduto il 2.1.1984, conveniva la predetta società dinanzi al Tribunale di Perugia per ottenere, ai sensi dell'art. 2289 c.c., la liquidazione della propria quota.
La società convenuta, costituitasi in persona degli altri due soci, eccepiva preliminarmente il proprio difetto di legittimazione passiva, assumendo che, nella società di persone, il debito relativo al pagamento della quota del socio uscente costituiva un obbligo diretto dei soci, e non della società. Nel merito, contestava i criteri di liquidazione seguiti dall'attore nel quantificare la propria pretesa.
Con sentenza 26.10.1990-12.4.1991, il Tribunale di Perugia condannava la società convenuta al pagamento di L. 44.739.824, con rivalutazione ISTAT, comprensiva degli interessi legali, dalla scadenza del semestre dal recesso alla data della decisione, oltre interessi legali sulla somma cosi determinata dalla suddetta data al saldo.
Contro detta sentenza proponevano impugnazione la società ed i soci in proprio, di nuovo sollevando, preliminarmente, la questione della legittimazione passiva ed avanzando, nel merito, varie censure circa l'accertamento della situazione patrimoniale della società, con particolare riferimento alla valutazione dei beni inventariati e dell'avviamento commerciale.
Con sentenza 16.9-12.10.1994, la Corte d'appello di Perugia confermava integralmente la sentenza di primo grado, osservando:
- che la legittimazione passiva spettava alla società;
- che il criterio di valutazione dei beni inventariati, basato sui prezzi d'acquisto depurati di una percentuale per la presumibile usura, appariva l'unico oggettivamente rispondente al valore reale dei beni all'atto della liquidazione;
- che ugualmente corretto appariva il metodo seguito per la determinazione dell'avviamento commerciale, collegato alla media degli utili netti fiscali conseguiti negli ultimi tre anni;
- che un'eventuale diversa regolamentazione dell'avviamento per le società di capitali sarebbe stata in ogni caso giustificata dalla diversa struttura delle società di persone e di capitali, e non avrebbe quindi dato adito ad alcun dubbio di costituzionalità;
- che legittimamente era stata riconosciuta la rivalutazione monetaria al Paolantoni, data l'attività imprenditoriale dal medesimo svolta, che faceva presumere il reinvestimento della somma ottenuta a titolo di liquidazione;
- che, infine, andava disattesa la richiesta degli appellanti di ulteriori prove, in quanto non specificate e comunque superflue. Avverso tale sentenza propongono ricorso la s.d.f. Fustellificio Carpine, in persona dei soci Zeno Cappelletti e Stefano Zoppitelli, nonché questi in proprio. Resiste Mariano Paolantoni con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i ricorrenti, deducendo violazione dell'art. 2289 c.c., ripropongono l'eccezione di difetto di legittimazione passiva, lamentando l'erronea individuazione del soggetto tenuto alla liquidazione della quota, da identificarsi nei soci in proprio e non nella società.
L'eccezione è infondata.
Premesso che nella specie non sorge questione di integrità del contraddittorio, essendo presenti in giudizio sia la società che i soci in proprio, deve ritenersi che l'autonomia patrimoniale di cui la società di persone è dotata, pur se in assenza di personalità giuridica, comporti che debba far carico al patrimonio sociale il debito costituito dalla quota di liquidazione del socio receduto. Ed invero, la società di fatto, ancorché irregolare e non munita di personalità giuridica, è tuttavia soggetto di diritto, in quanto titolare di un patrimonio formato con i beni conferiti dai soci: con la conseguenza che detta società è passivamente legittimata rispetto alla domanda del socio receduto che chieda la liquidazione della sua quota (Cass. 1027/93). Analogamente, in base alle medesime premesse, è stata affermata la legittimazione passiva della società in nome collettivo per la liquidazione della quota del socio escluso, rappresentando questa un credito del socio stesso nei confronti non degli altri soci, bensì della società (Cass. 3773/94).
2. Con il secondo motivo i ricorrenti, ancora deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2289 c.c., nonché difetto di motivazione, muovono varie censure alla valutazione del patrimonio della società, cosi come operata dai giudici di merito, in relazione:
a) al criterio dei prezzi d'acquisto ed alla congruità della percentuale di "depurazione", contestando la valenza probatoria di un asserito accordo in proposito intervenuto tra le parti;
b) al calcolo dell'avviamento commerciale, effettuato senza operare alcuno scorporo per il costo del lavoro imputabile alla prestazione del socio receduto;
c) all'illegittimità costituzionale (per contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost.) del metodo cosi seguito, concretante una disparità di valutazione dell'avviamento commerciale tra le società di persone e le società di capitali.
Le censure risultano tutte infondate.
Va innanzi tutto puntualizzato che non è ravvisabile alcun profilo di violazione di legge, essendo stata la liquidazione correttamente effettuata in base alla situazione patrimoniale della società all'epoca del recesso.
Le critiche dei ricorrenti si rivolgono contro le modalità di calcolo seguite dai giudici di merito per la valutazione dei beni aziendali (attrezzature e merci) e, soprattutto, dell'avviamento commerciale: censure da considerarsi ammissibili soltanto sotto l'aspetto - pure dedotto - del vizio di motivazione, non potendo essere messi in discussione in questa sede i criteri sostanziali adottati per la valutazione, a meno che il provvedimento impugnato abbia omesso di dare ragione della loro applicazione, o sia incorso in proposito in contraddittorietà ed illogicità di motivazione. Ipotesi che nella specie non sono ravvisabili, avendo i giudici di merito, legittimamente riferendosi alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, fornito idonea spiegazione a sostegno dei metodi impiegati. In particolare:
a) i beni aziendali risultano essere stati calcolati secondo i valori dei beni inventariati concordati dagli stessi soci, ottenuti dai prezzi d'acquisto diminuiti di una percentuale corrispondente all'usura: trattasi di criterio eminentemente logico, al quale i ricorrenti hanno contrapposto soltanto una serie di contestazioni di merito, non proponibilì in questa sede, circa la congruità delle valutazioni raggiunte;
b) anche la valutazione dell'avviamento commerciale si sottrae a censure di illogicità. Va premesso che l'avviamento si sostanzia in un fattore di redditività, derivante da un complesso di elementi che, se pure cronologicamente attualizzati al momento dello scioglimento del rapporto, si fondano sui risultati economici delle passate gestioni e sulle prudenti previsioni dei futuri rendimenti, e si traduce nella probabilità, proiettata eminentemente nel futuro, di maggiori profitti per i soci superstiti, derivati dall'apporto conferito dal socio recedente e consolidatosi come componente del patrimonio sociale (Cass. 7595/93).
In tale ottica, il criterio adottato, basato sulla media degli utili netti fiscali conseguiti negli ultimi tre anni anteriori al recesso, appare non solo in linea (come rilevato dai giudici d'appello) con una prassi commerciale largamente utilizzata e ritenuta legittima dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 4210/92), ma soprattutto attuativo dei principi sopra enunciati e rispondente ai requisiti dell'istituto.
La modifica che i ricorrenti vorrebbero apportare, cioè lo scorporo di una quota pari al costo del lavoro del socio receduto (lavoro che questi - come gli altri due soci - prestava personalmente) snaturerebbe lo scopo essenziale e le caratteristiche fondamentali dell'avviamento commerciale, privando il socio receduto del beneficio del suo lavoro, che verrebbe annullato per lui, ma del quale invece si gioverebbero, con ingiusta locupletazione, i soci superstiti, i quali continuerebbero a realizzare profitti in virtù anche dell'apporto lavorativo conferito dal socio receduto, entrato a far parte del complesso organizzativo imprenditoriale. Nè il diverso metodo di valutazione dell'avviamento commerciale, in ipotesi utilizzabile per le società di capitali, darebbe adito ad alcun dubbio di costituzionalità, attese le fondamentali differenze giuridiche e strutturali esistenti tra società di capitali e società di persone, che ben valgono a giustificare l'adozione di metodi diversi per la valutazione delle rispettive situazioni patrimoniali.
3. Con il terzo motivo i ricorrenti, denunciando violazione degli artt. 2289, 1277, 1223 c.c., nonché difetto di motivazione, lamentano che i giudici di merito abbiano attribuito al Paolantoni la rivalutazione monetaria, sulla base di una mera ipotesi di reimpiego, non suffragata da alcuna circostanza oggettiva, ed abbiano inoltre, computando gli interessi sulla somma rivalutata, operato un'indebita duplicazione di risarcimento.
Entrambe le doglianze sono prive di pregio.
Configurandosi l'obbligazione di pagamento della quota di liquidazione del socio receduto come debito di valuta, il risarcimento del maggior danno, ragguagliato alla svalutazione monetaria intervenuta dalla data di maturazione del credito (scadenza del termine semestrale previsto dall'art. 2289 c.c.) a quella della decisione, è stato correttamente riconosciuto al Paolantoni in base alla sua qualità di imprenditore commerciale. Allorché infatti risulti pacifica l'attività di imprenditore commerciale svolta professionalmente dal creditore, non è necessario che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all'indisponibilità del credito, ben potendosi dedurre in tale situazione, in base all' "id quod plerumque accidit", che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata reimpiegata in modo da essere sottratta agli effetti del deprezzamento monetario (Cass. 3187/96).
Non sussiste, poi, l'asserita duplicazione di risarcimento, essendo la rivalutazione attribuita comprensiva degli interessi legali, ed essendo poi stati applicati gli ulteriori interessi legali sulla somma dovuta non retroattivamente, ma soltanto con decorrenza dalla data della decisione di primo grado.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano che la Corte d'appello abbia mancato di giustificare la statuizione di rigetto delle istanze istruttorie da loro avanzate.
La censura è infondata, poiché correttamente la Corte d'appello, senza necessità di analitica motivazione, ha espresso un giudizio di "superfluità" delle istanze istruttorie degli appellanti, attuali ricorrenti, considerati esaurientemente acquisiti tutti gli elementi probatori necessari ai fini del decidere. 5. Con il quinto motivo i ricorrenti si dolgono dell'omessa motivazione circa la mancata compensazione delle spese, espressamente da loro richiesta.
Anche questa doglianza è infondata.
Com'è noto, la statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto, posto dall'art. 91 c.p.c., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa, o nel caso di compensazione pronunciata con motivazione illogica o erronea: in ogni altro caso, ed in particolare ove il giudice abbia posto le spese a carico della parte soccombente, anche disattendendone l'espressa sollecitazione a disporne la compensazione, la statuizione è insindacabile in sede di legittimità, stante l'assenza di un dovere del giudice di merito di motivare il provvedimento adottato (Cass. 5174/97).
Nella specie, quindi, la Corte d'appello non aveva alcun obbligo di motivare la condanna alle spese pronunciata nei confronti degli appellanti soccombenti, anche se costoro avevano espressamente avanzato istanza di compensazione.
Attesa l'infondatezza di tutte le censure proposte, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna dei ricorrenti alle spese della presente fase del giudizio.
P.Q.M.
La Corte Rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, di cui L. per spese e L. 2.000.000 per
onorari.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 1997.
Depositato in Cancelleria il 11 Febbraio 1998.