Crisi d'Impresa e Insolvenza


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20007 - pubb. 22/06/2018

Responsabilità della banca per concessione abusiva di credito

Cassazione civile, sez. I, 14 Maggio 2018, n. 11695. Est. Marulli.


Abusiva concessione di credito ad imprenditore in stato di insolvenza - Azione da illecito aquiliano nei confronti del finanziatore (banca) per il risarcimento del danno causato ai creditori - Responsabilità nei confronti dei terzi che abbiano confidato sulla solvibilità dell’imprenditore - Sussistenza - Condizioni



In tema di concessione abusiva di credito, sussiste la responsabilità della banca, che finanzi un'impresa insolvente e ne ritardi perciò il fallimento, nei confronti dei terzi che, in ragione di ciò, abbiano confidato nella sua solvibilità ed abbiano continuato ad intrattenere rapporti contrattuali con essa, allorché sia provato che i terzi non fossero a conoscenza dello stato di insolvenza e che tale mancanza di conoscenza non fosse imputabile a colpa. (massima ufficiale)


 


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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria - Presidente -

Dott. VALITUTTI Antonio - Consigliere -

Dott. MARULLI Marco - rel. Consigliere -

Dott. TRICOMI Laura - Consigliere -

Dott. FALABELLA Massimo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

 

Svolgimento del processo

1.1. Con sentenza depositata il 9.3.2012 la Corte d'Appello di Torino, respingendo l'appello di O.M.T. s.r.l. in amministrazione straordinaria, ha confermato l'impugnata decisione con la quale il Tribunale di Tortona aveva rigettato la domanda proposta dalla medesima O.M.T. al fine di vedere accertata la responsabilità di Meliorbanca s.p.a. per l'abusiva concessione del credito che questa aveva effettuato in favore di Merker s.p.a., società con cui O.M.T., in grazia anche dei finanziamenti ricevuti, che ne avevano ritardato la dichiarazione di insolvenza, era rimasta in rapporti di affari e nei confronti della quale aveva maturato un ingente credito ammesso al passivo concorsuale, una volta che la debitrice era stata messa in amministrazione straordinaria, solo in via chirografaria.

1.2. Respingendo il gravame, il giudice d'appello, preso atto, come già quello di prime cure, che O.M.T. era una controllata di Merker, nonchè del ruolo decisionale in entrambe le società di R.G., si è detto convinto che, essendo presupposto dell'azione risarcitoria promossa dall'appellante l'ignoranza incolpevole del creditore circa la situazione di insolvenza del debitore, in uno con il legittimo affidamento che esso abbia posto nella sua solvibilità, nella specie non fosse ravvisabile una situazione di tal fatta, atteso che per il rapporto di controllo la creditrice "poteva venire determinata a contrarre già in base all'obiettiva situazione per cui le sue decisioni erano determinate dalla controllante", mentre "l'ignoranza" rilevante andava esclusa sia perchè controllata e controllante condividevano "i soggetti che, cariche sociali o meno, dirigevano le attività sociali", sia perchè "la consapevolezza della situazione economica della controllante era irrilevante se quella poteva manovrare a piacimento la controllata". Era peraltro onere dell'appellante dimostrare non solo di essere inconsapevole della situazione di insolvenza della controparte, ma anche che di ciò fosse incolpevole, "posto che quella di concedere credito ad una società decotta costituisce un illecito se, e solo se,... ciò provoca un danno ad un terzo contraente col soggetto decotto, per averne incolpevolmente ignorato, a causa del comportamento della banca, l'effettiva situazione".

1.3. Per la cassazione di detta sentenza la O.M.T si affida a tre motivi di ricorso.

Replica ad esso l'intimata con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

Motivi della decisione

2.1. Il ricorso - alla cui ammissibilità non osta la pregiudiziale opposta dalla controricorrente sull'assunto che la decisione qui impugnata si sarebbe conformata sulla questione di diritto oggetto di causa al dictum di SS.UU. 7029/2006 e 7030/2006, vero, al contrario, che detti precedenti si innestano in una diversa cornice fattuale e l'enunciato che vi figura, ed offre pretesto all'obiezione, costituisce un mero obiter - con il primo motivo, declinante una pluralità di censure, deduce, per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, che il giudice del gravame sia incorso in errore per aver ritenuto insussistente il nesso di causalità tra il danno allegato dalla ricorrente ed il fatto imputato alla banca in ragione dei ricordati indici fattuali costituiti dall'essere controllata di Merker e dall'esserle stati addebitati comportamenti infedeli dei propri dirigenti, nonchè per aver ancora ritenuto che fosse onere probatorio di essa istante provare la propria ignoranza incolpevole. Più in dettaglio O.M.T. lamenta che, essendo l'abusiva concessione del credito fonte di illecito, non potrebbe perciò negarsi la sussistenza del nesso di causalità tra i finanziamenti indebiti concessi nell'occasione dall'intimata ed il pregiudizio da essa subito; non sarebbe decisivo il rapporto di controllo in ragione della sua terzietà e della sua autonomia soggettiva, così come non sarebbe parimenti decisivo l'eventuale compartecipazione dei suoi amministratori agli atti connessi all'erogazione dei finanziamenti, essendo errato trarre dalla eventuale consapevolezza del suo amministratore circa l'illiceità delle operazioni effettuate che essa ne avesse pure giuridica conoscenza; nè la responsabilità dell'intimata potrebbe escludersi a causa dell'infedeltà del proprio amministratore, il contrario essendo stato affermato dalla giurisprudenza di questa Corte nella sentenza 13413/2010; nè, infine, sarebbe condivisibile l'assunto in punto di prova, giacchè sussistendo tutti gli elementi costitutivi dell'azione ovvero fatti, evento, nesso di causalità e colpevolezza, la domanda era compiuta e l'onere probatorio assolto.

2.2. Attesa la molteplicità delle censure sviluppate, è bene, inizialmente, sgombrare il terreno dagli argomenti meno insidiosi su cui il motivo ha agio di soffermarsi.

2.3. Il pensiero corre, in primo luogo, all'idea di credere che la società viva di vita propria e non attraverso l'operato dei propri organi sociali e, primamente, attraverso i suoi amministratori, tanto che della condotta di questi ultimi essa non risponderebbe in ragione, appunto, della sua terzietà ("la O.M.T.", significativamente si legge a pag. 24 del ricorso, "in quanto terzo rispetto al rapporto di finanziamento non può essere coinvolta nella responsabilità derivante da tali attivitià negoziali"), tesi che, oltre a non accordarsi con la realtà processuale essendosi accertato in sede di merito che la O.M.T. era una controllata di Merker e si valeva dell'operato delle medesime persone che rivestivano cariche sociali nella controllante, risulta in diritto difficilmente condivisibile secondo le recenti tendenze della legislazione speciale in talune materie ed è a dir poco recessiva rispetto ai canoni della moderna dottrina delle persone giuridiche.

2.4. Non meno fuorviante è l'argomento che si vorrebbe trarre da Cass. 13413/2010 che, avendo affermato che il curatore fallimentare è legittimato ad agire ai sensi della L. Fall., art. 146 e dell'art. 2393 c.c. nei confronti della banca, quale terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell'abusivo ricorso al credito da parte dell'amministratore della predetta società in base all'art. 2055 c.c., avrebbe finito, secondo l'interpretazione forma dalla ricorrente, per convalidare l'opinione che, di fronte all'accesso al mercato del credito accordato da qualche operatore, malgrado lo stato di decozione, i destini della società e dei suoi amministratori possano andare disgiunti e non sia perciò improprio concludere che la banca possa essere chiamata a rispondere in via solidale del danno subito dalla società per colpa del proprio amministratore infedele indipendentemente dall'azione nei confronti di costui. Non è però chi non veda come l'argomento possa giudicarsi conducente, posto che, da un lato, non sarebbe corretto isolarne totalmente la genesi rispetto al quadro di riferimento in cui si è formato, collocandosi esso al culmine di un percorso evolutivo i cui primi passi erano stati indicati da SS.UU. 7029 e 7030/2006 allorchè, pur sbarrando "la porta" alla legittimazione diretta del curatore, che non potrebbe evocare in giudizio la banca per rispondere del danno da abusiva concessione di credito, non trattandosi di un'azione della massa, aveva tuttavia lasciato aperta "la finestra" della legittimazione del curatore ad agire ai sensi della L. Fall., art. 146 e art. 2393 c.c., ipotizzando che potesse ravvisarsi una responsabilità degli amministratori per mala gestio; dall'altro, non sarebbe possibile tacere, sviluppando questa linea di pensiero, che la visuale in cui si colloca il richiamo a Cass. 13413/2010 non tiene conto dell'oggettiva diversità dell'odierna fattispecie rispetto a quella scrutinata dal citato precedente e sia più esattamente falsata dalla mancata percezione che la legittimazione attiva del curatore riconosciuta in quell'occasione non costituisce un'affermazione a sè stante, sì da rendere sostenibile che, così com'è in suo potere chiamare in responsabilità la banca pur senza agire contro gli amministratori, altrettanto dovrebbe essere possibile alla società che resti danneggiata dall'operazione di abusivo finanziamento, ma si giustifica, intanto, sul presupposto che, seppur gli amministratori non siano chiamati in giudizio, sussista la loro responsabilità nei confronti della società, tanto infatti che quella della banca viene argomentata in applicazione dell'art. 2055 c.c., - il che porta a concludere che, diversamente da quanto preteso, la società in quel contesto non sia poi del tutto indifferente all'operato dei suoi amministratori - e, di poi, mal si concilia col fatto che O.M.T. è qui il creditore danneggiato e non la società danneggiata, ovvero è terza estranea rispetto alla fattispecie trattata dal precedente richiamato in cui si discute del danno ad essa cagionato dai propri amministratori infedeli.

2.5. Di più forte impatto, seppur non risolutivo, è l'argomento che la ricorrente ha cura di sviluppare - segnatamente in critica della decisione di primo grado che su di esso aveva incentrato il proprio giudizio negativo, osservando che nella attiva partecipazione all'operazione della società a mezzo dei propri organi rappresentativi si ravviserebbe un fattore interruttivo del nesso causale tra fatto ed evento dannoso ex art. 41 c.p., comma 2, di modo che la banca non sarebbe responsabile del danno lamentato dalla società, essendone stata causa la sua condotta - chiedendosi, sull'assunto che l'abusiva concessione di credito in favore di una società in stato di insolvenza, qual era nella specie la Merker, costituisce indubbiamente un fatto illecito, "come possa negarsi il nesso di causalità tra i finanziamenti indebiti e l'aggravarsi del pregiudizio patrimoniale subito da O.M.T.".

2.6. L'argomento, come detto, non è risolutivo perchè estraneo alla radice decisionale del pronunciamento d'appello, che ha infatti motivato il rigetto della domanda attrice seguendo la ben diversa via dell'ignoranza incolpevole del terzo danneggiato che nella specie non sarebbe ravvisabile in ragione del rapporto di controllo corrente tra Merker, controllante, e O.M.T. controllata e della condivisione dei soggetti affidatari nell'una e nell'altra compagine di compiti che comportavano la direzione delle attività sociali. E dunque vi sarebbe ragione di decretarne in limine l'inconferenza, espungendone l'esame dal giudizio in ossequio al noto dettame secondo cui la proposizione con il ricorso per cassazione di censure prive di specifiche attinenze al decisum della sentenza impugnata, essendo assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, ne determina l'inammissibilità. E tuttavia, pur mantenendo fermo il rilievo pregiudiziale, reputa il collegio non inutile precisare in chiosa ad esso - qui dando seguito all'affermazione formulata in premessa che la vicenda non si presta ad essere definita ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 1, - che la chiave interpretativa giocata tutta sul filo dell'interruzione del nesso causale - in disparte dalla considerazione che, di fronte ad una giurisprudenza che più in generale ascrive efficacia causale prevalente alla condotta del danneggiato nel solo caso in cui questo ponga in essere un'altra serie causale eccezionale ed atipica rispetto alla prima, idonea da sè sola a produrre l'evento, che sul piano giuridico assorbe ogni diversa serie causale e ne riduce il ruolo a semplice occasione, viene difficile credere che la condotta di O.M.T. nella specie sia stata la sola fonte del danno da essa lamentato, quando è pur sempre la banca che, in apparente piena autonomia, proceda a foraggiare il debitore decotto - non rispecchia fedelmente l'inciso da cui si pretenderebbe che nel ragionamento delle SS.UU. 7029 e 7030/2006 l'argomento fosse legittimato. Eppur vero che, in relazione ad una vicenda ragguagliabile in qualche tratto a quella qui in esame - anche nel caso esaminato in quell'occasione l'impresa danneggiata aveva partecipato al perfezionamento del contratto che aveva dato luogo all'abusiva concessione di credito mediante i suoi organi sociali - le SS.UU. abbiano valorizzato il dato fattuale testè riportato per affermare che la società, pretesamente danneggiata dall'operazione, da quel contratto non potesse trarre alcun credito nei confronti della banca, avendo essa stessa per effetto della propria condotta concorso alla causazione dell'illecito e non potendo perciò ritenersi che in capo alla società finanziata abusivamente possa nascere un diritto di credito da un fatto illecito prodotto anche per l'attività infedele dei suoi rappresentanti. Ma ciò è premessa, nel ragionamento della Corte, non già per escludere - come qui si vorrebbe a priori dalla controricorrente - la sussistenza del nesso di causalità tra il comportamento della banca che conceda abusivamente il credito ed il danno lamentato dal terzo creditore, bensì per escludere che nella specie potesse trovare applicazione una pretesa compensazione delle colpe, giacchè "l'ipotesi di cui all'art. 1227 c.c. non può applicarsi al caso in cui entrambe le parti del rapporto danno vita, consapevolmente, al medesimo illecito, riguardando la norma codicistica la fattispecie nella quale distinte condotte, diversamente efficienti a produrre l'evento di danno, ma tuttavia l'una avente titolo nella colpa, concorrono a produrre l'evento pregiudizievole". Il che è come dire - ognun vede - che si è ben al di fuori dal negare la responsabilità della banca perchè il fatto sarebbe unicamente attribuibile al danneggiato.

2.7. E' infine una censura puramente fattuale - e come tale non è fonte di alcuna violazione delle norme richiamate in esergo - quella che O.M.T. muove alla decisione impugnata sotto il profilo della concludenza del ragionamento probatorio che avrebbe indotto il giudicante a disconoscere l'ignoranza incolpevole della ricorrente, lamentando, in particolare, che "non vi è agli atti nessuna prova, nè documentale, nè testimoniale in ordine alla giuridica conoscenza da parte di O.M.T. della effettiva natura dei rapporti di finanziamento di Merker con Mediobanca".

2.8. Ancorchè la censura si escluda per questo da sola - tanto più che il giudice d'appello ha motivato il proprio assunto sul punto con argomenti (la O.M.T. è una controllata di Merker ed era gestita dalle stesse persone che gestivano quest'ultima) di assoluta ineccepibilità, se non a prezzo di ricorrere a qualche artificio concettuale, come quello di credere che la società sia terza rispetto ai propri organi sociali - l'argomento che essa racchiude sollecita ancora qualche altra riflessione, di cui si avverte l'esigenza in rapporto ad una elaborazione della materia che, privilegiando, specie sul piano giurisprudenziale, altri aspetti del problema - primo fra tutti quello che si accompagna all'emersione del fenomeno in coincidenza con i momenti di crisi dell'impresa - ha mostrato, invece, di lasciare in secondo piano, forse perchè privo di tratti di particolare originalità rispetto alla più generale tematica della tutela aquiliana del credito, la questione dell'autoresponsabilità del terzo danneggiato, e ciò sebbene sia indubbio che nella formazione della fattispecie sia determinante non solo la condotta della banca che eroghi il finanziamento, ma anche del terzo danneggiato che in ragione di ciò sia portato a fare affidamento sulla solvibilità dell'impresa che lo riceva.

2.9. Non si manca infatti di notare, di fronte alla condotta della banca che continui a finanziare l'impresa insolvente anzichè avviarla al fallimento, che così facendo "la banca offre agli operatori di mercato una sensazione distorta, ingannandoli sulle reali situazioni dell'impresa finanziata ed inducendoli a continuare a trattare con essa, come se fosse un'impresa sana, con la conseguenza che il suo fallimento viene artificiosamente ritardato con grave pregiudizio per la posizione di tutti i creditori: di quelli anteriori al fallimento tardivo, perchè dovranno concorrere con altri creditori e riusciranno a recuperare una somma inferiore a quella che avrebbero riscosso, se il fallimento fosse stato dichiarato tempestivamente; dei creditori posteriori, perchè essi a loro volta non avrebbero concesso credito, se il debitore fosse tempestivamente fallito". E tuttavia il fatto che il fenomeno mostri i propri effetti in relazione al mercato ha indotto pure l'osservazione, maturata sul filo della percezione che il mercato ha dimensione puramente relazionale nel senso che le relazioni economiche e commerciali non soltanto si svolgono nel mercato, ma pure lo realizzano, che "nell'esercizio della sua attività sul mercato l'operatore economico è artefice del mercato stesso, e come tale è richiamato al dovere di autoresponsabilità anche quale misura di giustificazione delle sue pretese risarcitorie", sicchè sembra difficile dubitare "che l'agire negligente e noncurante delle insidie insite nelle operazioni economiche e nelle relazioni commerciali contravvenga al principio di autoresponsabilità, e impedisca di affermare come meritevole di tutela l'incauto affidamento riposto sulla bontà dell'operazione".

2.10. E' questo un ordine di idee, peraltro, a cui non è rimasta insensibile la giurisprudenza di questa di Corte in tema di tutela dell'affidamento incolpevole, atteso che nel dare il più esteso riconoscimento al principio in parola, in consonanza con i principi solidaristici di cui è espressione l'art. 2 Cost., se n'è sempre condizionata l'opponibilità alla circostanza che l'affidamento sia appunto incolpevole, escludendo, infatti, che possa essere considerato tale quello causato da uno stato di ignoranza superabile con l'uso della normale diligenza. Così, scrutinando a caso, se non si vuole accedere al ricco filone della giurisprudenza in tema di apparenza del diritto, che nel principio in questione trova fondamentale presidio, non si è esclusa in linea di principio la responsabilità degli amministratori ai sensi dell'art. 2395 c.c. "nel caso di bilancio contenente indicazioni non veritiere, che si assumano avere causato l'affidamento incolpevole del terzo circa la solidità economico-finanziaria della società e la sua decisione di contrattare con essa" (Cass., Sez. 1, 08/09/2015, n. 17794) o ancora nel caso del promotore finanziario non legato da un rapporto contrattuale con la banca, si è ritenuta sussistente "la responsabilità indiretta di quest'ultima qualora la promozione sia svolta con modalità tali da ingenerare negli investitori l'incolpevole affidamento su uno stabile inserimento del promotore nell'attività della banca" (Cass., Sez. 3, 31/07/2017, n. 18928), mentre al contrario si è escluso che sia ravvisabile la responsabilità precontrattuale della P.A. in relazione al diniego dell'approvazione ministeriale del contratto prevista dal R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 19 e L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 337 "qualora la mancata approvazione derivi dalla violazione di norme di carattere generale, di cui può presumersi la conoscenza e la cui ignoranza avrebbe potuto essere superata attraverso l'uso della normale diligenza, non essendo in tal caso configurabile un affidamento incolpevole del privato" (Cass., Sez. 1, 13/05/2009, n. 11135).

1.11. E' dunque un principio immanente nell'assetto impresso dal diritto vivente alla tutela risarcitoria in materia di affidamento che, intanto si possa affermare la responsabilità del soggetto a cui si imputa il fatto illecito fonte di pregiudizio, se ed in quanto l'affidamento che il danneggiato riponga nella condotta altrui sia immune da colpa, non potendo l'ordinamento tutelare le ragioni di chi per effetto della propria negligenza abbia abdicato al principio di autoresponsabilità. Ne discende, perciò, volendo dar seguito nel nostro campo pure al "seme", che riguardo a ciò era in nuce già presente nel citato obiter delle SS.UU., ragione per affermare il seguente principio di diritto: "In materia di concessione abusiva del credito, sussiste la responsabilità della banca, che finanzi un'impresa insolvente e ne ritardi perciò il fallimento, nei confronti dei terzi, che in ragione di ciò abbiano confidato nella sua solvibilità ed abbiano continuato ad intrattenere rapporti contrattuali con essa allorchè sia provato che i terzi non fossero a conoscenza dello stato di insolvenza e che tale mancanza di conoscenza non fosse imputabile a colpa".

3.1. Con il secondo motivo di ricorso O.M.T. allega, per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, un vizio di omessa e contraddittoria motivazione che inficia il deliberato d'appello, avendo il decidente, nell'ordine, escluso il nesso di causalità ignorando che solo grazie ai finanziamenti concessile dall'intimata la Merker aveva continuato ad operare, negato la qualità di terzo incolpevole di essa ricorrente senza compiere alcuna analisi del materiale istruttorio e senza indicare le fonti dimostrative ed avendo infine fattole addebito di aver agito a tutela della massa, come se il pregiudizio del patrimonio di una controllata non potesse avere un'autonoma tutela in quanto tale.

3.2. Il motivo, per quanto non debba ritenersi infondato in ragione di ciò che si è già superiormente osservato, è per il resto immeritevole di adesione.

Esso, lungi per vero da incrociare anche alla lontana le categorie evocate, atteso che la motivazione sviluppata dal decidente a conforto del pronunciato rigetto del gravame societario è pienamente esaustiva e segue un itinerario logico-argomentativo privo di anomalie che ne compromettano la comprensibilità, laddove segnatamente raccomanda all'attenzione della Corte l'esame di "almeno tre circostanze" delle quali il giudice d'appello avrebbe omesso la valutazione oblitera palesemente il comando secondo cui spetta esclusivamente al giudice di merito selezionare le fonti del proprio convincimento ed anela in buona sostanza alla rinnovazione del giudizio fattuale esperito dal medesimo che non è notoriamente compito di questa Corte.

4.1. Il terzo motivo imputa alla sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., comma 1, la violazione del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, avendo essa provveduto a liquidare le spese quantificando i diritti in Euro 9543,00, e ciò in misure ben maggiore di quella riportata per l'analoga voce nella propria nota.

4.2. Il motivo è inammissibile.

Esso si fonda su una contestazione del tutto generica che non soddisfa il parametro di ammissibilità del motivo indicato dall'art. 366 c.p.c., comma, n. 4, tanto più che, in luogo di allegare in che modo il giudicante sarebbe addivenuto alla violazione denunciata, la ricorrente si limita a dedurre a riprova di ciò che la liquidazione dei diritti in favore della controparte non sarebbe congrua rispetto a quelli da essa reclamati, in tal modo chiedendo inammissibilmente che la Corte si faccia giudice di una statuizione fattuale che compete esclusivamente al giudice di merito enunciare.

5. Rigettandosi il ricorso le spese seguono la soccombenza.

6. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

P.Q.M.

Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 16200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 5 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2018.