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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 04/03/2025 Scarica PDF

L’accertamento tecnico nella legge Gelli - Bianco: problemi attuativi ed orientamenti giurisprudenziali

Domenico Talarico, Avvocato in Roma


Sommario: 1. Reiterabilità del ricorso e deflazione del contenzioso: un irrisolto ossimoro - 2. La scelta dei consulenti tecnici - 3. La chiamata di terzi e l’estromissione dal giudizio

    


1. Reiterabilità del ricorso e deflazione del contenzioso

L’arco temporale trascorso dalla promulgazione della normativa in materia di responsabilità medica fornisce materiale utile per svolgere alcune notazioni.

Dalla responsabilità sanitaria alla sanità responsabile: è l’ambizioso obiettivo che, nelle intenzioni dichiarate dai suoi relatori, si proponeva il complesso schema normativo, anche attraverso regole idonee a inquadrare le responsabilità del singolo operatore sanitario in un contesto di maggiore tutela.

Un excursus nelle pratiche applicative e nella giurisprudenza formatasi in questi primi anni è utile per alcune riflessioni:

intanto, la scelta del legislatore di utilizzare uno strumento processuale quale l’accertamento tecnico preventivo (art. 8) è stata senz’altro accolta positivamente. Si tratta, infatti, di un mezzo che offre buone potenzialità conciliative e che consente di ottenere, in tempi ristretti ed a costi contenuti, utili elementi per la valutazione immediata della materia del contendere.

Tuttavia, questa scelta si è rivelata non scevra da controindicazioni. La predetta collocazione ha infatti comportato l’attribuire al ricorso la natura cautelare: il che lo priva di contenuto decisorio, caratterizzandolo per provvisorietà e riproponibilità.

E su queste ultime caratteristiche, e soprattutto sulla riproponibilità, che si sono verificati i primi problemi applicativi.

Vale la pena dire subito che all’interrogativo se il ricorso per accertamento tecnico preventivo della legge Gelli sia riproponibile o meno è stata già data risposta affermativa dalla giurisprudenza sicché, allo stato, un soggetto che ritiene di aver subìto un danno in materia sanitaria può agevolmente riproporre l’accertamento tecnico preventivo, anche nel caso abbia già esperito un primo ricorso ex art. 696-bis cod. proc. civ., vieppiù con C.T.U. di esito negativo.

Sembrerebbe una interpretazione stridente, tuttavia rappresenta opinione prevalente della giurisprudenza, ed anche la Suprema Corte ha ribadito tale impostazione[1].

Le conseguenze pratiche sono molteplici e non di poco conto. Proviamo a descriverle:

- in materia di responsabilità sanitaria, il ricorrente, ex art. 8, data la riproponibilità del mezzo, nel caso di C.T.U. negativa avrebbe la possibilità (strumentale) di ritentare – magari dopo anni – un nuovo procedimento, invece di aprire la fase di merito su una relazione peritale avversa. Con il risultato di costringere il nosocomio resistente ad appostare (a lungo) il rischio a bilancio, mentre i medici sopporterebbero identici problemi con le compagnie assicurative (aumento del rischio, mancato rinnovo);

- l’intento deflattivo risulta inevitabilmente compromesso da tale interpretazione: la riproponibilità di un ricorso per A.T.P., conclusosi con esito negativo, è una possibilità sin troppo appetibile in un ambito, quale quello della responsabilità sanitaria, ove il contenzioso è oramai deflagrato.

A ciò aggiungasi che le strutture sanitarie resistenti, ove intendessero bloccare tale strumentale uso, sarebbero motivate a loro volta ad aprire la fase di merito. Oppure, e meglio, potrebbero avviare un autonomo ricorso per accertamento tecnico. La proliferazione dei giudizi è evidente, quanto già in corso.

Ed ancora: alla ricerca di un foro “favorevole” (per la presenza di C.T.U. aderenti ad una determinata tesi scientifica, ovvero per motivi diversi) i procedimenti ex l. 24/2017 – secondo tale interpretazione – diverrebbero agevolmente proponibili dinanzi tribunali privi di competenza. E ciò allo scopo di ottenere, surrettiziamente, una perizia presso il foro prescelto ad hoc (c.d. judge shopping).[2]

Ciò poiché il procedimento, maliziosamente incardinato dinanzi a un tribunale incompetente, non è sottoponibile al regolamento di competenza[3]: la conseguenza che deriva è quindi quella di consentire, di fatto, il judge shopping.

Infatti, in tale ipotesi l’eccezione di incompetenza territoriale diverrebbe proponibile ed ammissibile solo nella successiva fase di merito, ma allorquando la C.T.U. è oramai espletata, divenendo con ciò acquisibile in qualsiasi altro processo (in quanto prova validamente raccolta in un giudizio tra le parti)[4]. Il che travolge il diritto della parte ad essere giudicata dal giudice naturale precostituito (art. 25 Cost.) e vìola l’espresso precetto contenuto in tema di competenza nella norma di riferimento (art. 8 L. 24/2017)[5].

Insomma, la perizia, momento centrale del procedimento, in tale ambito interpretativo potrebbe essere affidata ad un tribunale incompetente e, come detto, gli effetti sarebbero irreversibili, giungendo la successiva questione di incompetenza a C.T.U. già espletata.[6]

Ed ancora: sebbene il ricorso per A.T.P. non sfoci in un provvedimento avente i requisiti di cosa giudicata, e la sua assunzione non pregiudichi le questioni relative all’ammissibilità e alla rilevanza della prova, né impedisca la rinnovazione in fase di merito, il punto nodale della questione appare diverso, soprattutto con riferimento al procedimento della responsabilità risarcitoria in campo sanitario.

Come rammentato, dapprima la riforma del 2005, poi la legge Bianco Gelli nel 2017, permeate da intenti deflattivi, hanno consentito di giungere rapidamente ad una prova tecnica, evitando i tempi maggiori dell’ordinario processo, allo scopo di favorire i percorsi conciliativi, all’uopo previsti.

La stessa normativa stabilisce espressamente che, se la conciliazione non riesce, ciascuna parte può chiedere che la relazione sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito.

Quindi con la proposizione di tale mezzo, da una parte, si ha esercizio di una azione e, dall’altra, la conseguente attività di giurisdizione dell’ufficio giudiziario adito. Ciò non è privo di conseguenze[7].

Ed allora lo svolgimento di tale azione, diretta all’ottenimento di una prova peritale, rimane sempre proiettato e connesso ad un futuro instaurando giudizio, e non potrebbe essere altrimenti.

Non si intravedono invero le ragioni in forza delle quali poter ipotizzare un procedimento, definito testualmente di istruzione preventiva (dal relativo titolo del libro IV del cod. civ.), avulso da un giudizio futuro, e ciò nonostante una eventuale conciliazione[8].

Ed è questo legame (indissolubile) tra mezzo di istruzione preventiva e successivo instaurando giudizio che rende inammissibile ipotizzare la ri-proposizione di un nuovo, ulteriore, A.T.P.; soprattutto in campo sanitario e nell’ambito dello schema tracciato dalla legge n. 24/2017.

Perché è esattamente a questo che conduce l’interpretazione giurisprudenziale prevalente: la illimitata riproponibilità e reiterabilità del mezzo di istruzione preventiva.

Non è revocabile in dubbio che un secondo A.T.P. si tradurrebbe nel mezzo (surrettizio, arbitrario) per evitare, aggirandolo, il successivo giudizio di merito e, quindi, per “tentare” un nuovo accertamento, diverso, forse più gradito, rispetto al precedente.

Ma anche osservando la questione sotto un diverso lato prospettico, il risultato sembra non mutare.

Infatti, a ben vedere, il ritenere reiterabile la richiesta di accertamento tecnico conduce ad una ingiusta svalutazione del mezzo istruttorio e del relativo procedimento giudiziario.

Nel nostro sistema processuale la Relazione Tecnica, svolta da un C.T.U., è sempre suscettibile di essere impugnata, o confutata, od ancora contestata, con i mezzi previsti dal codice di rito.

Essa è infatti (oramai) parte di un processo, di un esercizio di giurisdizione[9] e, in quanto tale, non può più essere rimessa alla discrezionalità della parte, libera di optare se sia il caso o meno di utilizzarla, quasi fosse un incarico commissionato a pagamento.

Il risultato cui perviene un C.T.U. – sotto giuramento – in un giudizio, ha precisi e specifici effetti, i quali potranno essere sì confutati, ma mai aggirati, attraverso la surretizia introduzione di un nuovo ricorso.

Opinare il contrario significherebbe svilire il contenuto stesso dei mezzi di istruzione preventiva, degradandoli a un ruolo che essi palesemente non hanno.

Diviene quindi evidente come l’interpretazione in esame sembra essere ancorata ad una concezione superata, discendente dalla originaria formulazione dell’istituto, e che, dunque, merita di essere rivista.

Si ricorderà infatti che, prima della riforma introdotta dal D.L. n. 35/2005, l’accertamento tecnico preventivo era limitato all’acquisire una “fotografia” dei luoghi o delle cose, essendo impedito al C.T.U. di spingersi nell’indagare sulle cause o sull’entità del fenomeno sottoposto all’esame.

In quel contesto, ipotizzare una reiterabilità del mezzo appariva possibile, anche perché immune da tutte le conseguenze negative ora evidenziate.

Ma nel momento in cui al C.T.U. si affida non più il compito di descrivere, ma bensì quello di accertare cause, origini ed entità del danno (D.L. 35/2005), il quadro muta decisamente poiché si passa dal piano della mera rappresentazione a quello, ben più penetrante, del giudizio.

E l’introduzione della legge Bianco Gelli nel 2017 ha ancora di più accentuato questo profilo, considerando la centralità e l’importanza che il legislatore ha riposto nella C.T.U. nell’ambito di tale procedimento.

In questo nuovo scenario, del tutto mutato, le interpretazioni ancora legate alla provvisorietà e reiterabilità non solo si mostrano superate, ma appaiono del tutto incompatibili con il nuovo assetto, addirittura agevolandone applicazioni distorsive.

La soluzione in realtà sembrerebbe semplice e nemmeno troppo lontana. Infatti, il legislatore, in un diverso ambito, si è già posto l’interrogativo e lo ha risolto in maniera piuttosto lineare. L’art. 445-bis cod. proc. civ., introdotto nel 2011 dal D.L. n. 98, sancisce che il risultato peritale dell’A.T.P. (in materia di invalidità civile) o viene contestato immediatamente (tramite l’introduzione di un giudizio ordinario) ovvero si consolida, e non è più oppugnabile o reiterabile. Non si intravedono ragioni per discostarsi da tale orientamento: anche il senso comune sembra spingere nella stessa direzione.

  

2. La scelta dei consulenti tecnici

Il testo di legge in parola ha anche tentato di risolvere l’annoso problema della scelta dei consulenti tecnici d’ufficio e della formazione di un albo costantemente aggiornato.

Invero, l’art. 15, co. 1, S.L. prevede che l’incarico peritale debba ora essere affidato a uno o più specialisti che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento[10]; la scelta del consulente dovrebbe quindi ricadere sempre su un professionista con significativa esperienza diretta nel campo della patologia oggetto di indagine.

Ma l’applicazione pratica della norma ne ha rivelato presto tutte le difficoltà attuative.

Intanto la generale, diffusa, carenza di medici, non semplifica la individuazione di professionisti (specialisti) che abbiano anche il tempo di occuparsi di indagini peritali. Inoltre, nei casi più complessi e ad alta specializzazione, per forza di cose il novero degli esperti si restringe. La conseguenza è che la formazione del collegio il più delle volte non risulta in linea con i princìpi dettati dalla indicata norma, dovendosi ricorrere o a professionisti privi di specializzazione ovvero a dover sopperire autorizzando i C.T.U. alla nomina di ausiliari.

In questo caso la strada che conduce a rimedi e soluzioni non è per niente agevole, e comunque sembra dover passare attraverso un coinvolgimento della categoria professionale maggiormente interessata, che è quella dei medici stessi.[11] Sarebbe, infatti, interessante ipotizzare la creazione di un organismo ad hoc, i cui componenti, adeguatamente selezionati e retribuiti, ricevessero tale funzione valutativa.

  

3. La chiamata di terzi e l’estromissione dal giudizio

Interpretazioni non sempre uniformi si registrano nel procedimento di formazione del contraddittorio e della individuazione del novero dei partecipanti al giudizio. È frequente, infatti, la chiamata in manleva di compagnie assicurative, dei medici, del personale sanitario ovvero di altri nosocomi. Ma si è già detto come la legge Gelli Bianco abbia inteso regolamentare, innovando, l’ambito della responsabilità del personale sanitario, andando a creare regole atte a garantirne una maggiore tutela.

Sicché l’art. 9 della legge Gelli, nel disciplinare l’azione di rivalsa, ne limita il campo alle sole ipotesi di dolo o colpa grave; la stessa legge prevede poi (art. 9 n. 2) che la rivalsa possa essere esercitata solo dopo che la struttura sanitaria abbia interamente pagato il risarcimento danni al paziente ed entro un anno dall’avvenuto pagamento. Inoltre, all’art. 9 n. 6 è disposta una soglia all’ammontare della rivalsa, che non coincide automaticamente con la somma eventualmente liquidata al danneggiato.

Permane in ogni caso da considerare il limite all’azione di rivalsa fissato dall’art. 1298, secondo comma, e dall’art. 2055, terzo comma, cod. civ., i quali addossano – in linea presuntiva – la responsabilità in via paritaria tra struttura e sanitario; e tale presunzione è superabile solo attraverso la dimostrazione di specifici inadempimenti commessi, in ipotesi, dal personale medico [12].

Sicché, alla luce di tale assetto, alcuni tribunali ritengono inammissibile la domanda di manleva nei riguardi del personale sanitario in sede cautelare[13].

In tale contesto è sembrato opportuno perseguire quello che rappresenta uno degli obiettivi dichiarati della legge Gelli Bianco: cioè, quello di attenuare la posizione dei sanitari; il che spingerebbe nel senso tracciato dal Tribunale capitolino.

Ma non mancano orientamenti differenti: secondo altri espandere nella fase cautelare e di formazione della prova la partecipazione di tutti i soggetti potenzialmente coinvolti nell’evento avrebbe attitudine ad agevolare le potenzialità conciliative e, comunque, ad offrire una migliore intelligenza dei fatti[14].

Tale secondo orientamento, seppur condivisibile per i suoi intenti, potrebbe creare non pochi problemi pratici alle parti, ritardando la estromissione di un giudizio a loro estraneo e, soprattutto, creando un eccessivo affollamento di parti non necessarie.



[1] Cfr. Tribunale Roma, ord. 29 novembre 2020, inedita; Tribunale Siena, ord. 8 novembre 2021; e, nella stessa direzione, anche se con diverse motivazioni, Cass. Civ. ord. 3 ottobre 2022 n. 28625  e conclusioni del  P.G.. 

[2] Siffatta pratica è diffusamente avversata: “Judge-shopping refers to a practice of filing several lawsuits that asserts the same claim. Judge shopping is usually done in a court or a district with multiple judges. It is done with the hope of having one of the lawsuits assigned to a favorable judge. It is also done with intent to nonsuit or voluntarily dismiss the others”. [Vaqueria Tres Monjitas, Inc. v. Rivera-Cubano, 341 F. Supp. 2d 69 (D.P.R. 2004)]

In sede comunitaria cfr. causa C-433/2016, Bayerische Motoren Werke AG vs Acacia S.r.L., Corte di Giustizia CEE.

[3] Nei procedimenti cautelari il regolamento di competenza ex artt. 38 e 43 cod. proc. civ. è ritenuto inammissibile a cagione della mancanza di contenuto decisorio e della loro provvisorietà ed illimitata riproponibilità (cfr.  Cass.  28625/2022 cit.).  

[4] La C.T.U. espletata in un diverso processo tra le parti è oramai annoverata tra le prove atipiche, le quali trovano ingresso nel processo civile, nel rispetto del contraddittorio, con lo strumento della produzione documentale e nel rispetto delle preclusioni istruttorie (cfr. Cass. n. 5440/2010; Cass. n. 7518/2001; Cass. n. 12422/2000; Cass. n. 2616/1995; Cass. n. 623/1995; Cass. n. 12091/1990; Cass. n. 5792/1990).

[5] Secondo cui: “Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696 bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente”.

[6] Accepto damno, ianuam claudere: sembrerebbe quasi il chiudere la porta dopo aver ricevuto il danno, come nel citato brocardo. Perché, se è vero che nelle fasi successive si può sempre sottoporre la C.T.U. a verifica e a rinnovo, la quotidiana pratica mostra come in realtà ciò non sia per nulla agevole e nemmeno frequente. Il che dovrebbe aumentare ogni cautela nelle ipotesi che permettono di aggirare il sistema ideato dal legislatore.

[7] I giudici delle leggi hanno espressamente rimarcato che: “Analogamente alla conciliazione giudiziale, la composizione della lite raggiunta in seno al procedimento ex art. 696-bis cod. proc. civ. non costituisce un’alternativa alla tutela giurisdizionale, ma una diversa forma con la quale la giurisdizione realizza la propria funzione… La definizione concordata della lite si inserisce in un articolato procedimento in cui l’attività conciliativa è svolta dal consulente tecnico sotto la direzione del magistrato ed è preceduta e seguita da statuizioni giudiziali” (Corte. Cost., 8 novembre 2023, n. 223).

[8] Sul legame tra accertamento preventivo e giudizio di merito si è soffermata sempre la Corte Costituzionale nella citata sentenza, evidenziando la centralità del momento valutativo  attraverso:  “…la verifica di ammissibilità affidata al giudice, la quale, come sopra evidenziato, investe sia la rilevanza dell’accertamento rispetto all’eventuale futuro giudizio di merito, sia la coincidenza del quid disputatum con i soli aspetti tecnici della questione di fatto” (Corte. Cost., 8 novembre 2023, n. 223, cit.).

[9] Cfr. nota precedente.

[10] Art. 15, co. 1, -  Nomina dei consulenti tecnici d'ufficio e dei periti nei giudizi di responsabilità sanitaria:

1. “Nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l'autorità giudiziaria affida l'espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento”.

[11] Una risalente riflessione in voga negli ambienti giudiziari sottolineava che “non è il Tribunale che condanna il medico, ma è sempre un altro medico (C.T.U.) che condanna il medico”.  

[12]   Cass. civ. 11 dicembre 2023 n. 34516 che conferma Cass. Civ., n. 28987 dell’11/11/2019.

[13] Cfr. Trib. Roma ord. 19 luglio 2024, inedita.  

[14] È l’attuale orientamento del Tribunale di Messina. 


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