Societario


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 01/08/2025 Scarica PDF

Inefficacia della cessione della partecipazione sociale in violazione del diritto di prelazione: tra abuso del diritto e buona fede “societaria”

Paola Orlando, Dottoranda di ricerca in Gestione finanziaria d'impresa e prevenzione della crisi presso l'Universitas Mercatorum


Sommario: 1. La clausola di prelazione statutaria come strumento di controllo della compagine sociale: natura giuridica della clausola di prelazione. 2. L’inefficacia della cessione in violazione della clausola societaria. 3. Violazione della clausola di prelazione. 4. Rischio di abuso del diritto e buona fede nei rapporti societari. 5. Brevi conclusioni.

   


1.

Il presente lavoro si propone di analizzare le implicazioni giuridiche derivanti dall’inosservanza della clausola di prelazione statutaria nelle società di capitali, con particolare attenzione ai fenomeni patologici che ne derivano sul piano funzionale, quali la stasi deliberativa e il possibile abuso del diritto da parte del socio. Il focus è incentrato sull’ipotesi in cui il ricorso alla liquidazione giudiziale della società venga utilizzato strumentalmente per eludere l’obbligo di prelazione statutaria, in un contesto in cui la violazione della clausola genera incertezza sull'esercizio dei diritti sociali da parte del cedente o del cessionario.

Preliminarmente, è opportuno inquadrare la questione.

Nel nostro ordinamento giuridico il termine prelazioneindica due fattispecie diverse tra loro. Per prelazionesi può intendere tanto il diritto del creditore a vedersi preferito, nella ripartizione dell'attivo, rispetto ad altri creditori; quanto il diritto, attribuito dalla legge o dalla volontà delle parti, ad un soggetto (detto prelazionario) di essere preferito a terzi nella stipulazione di un determinato contratto, qualora un altro soggetto (detto promittente) decida di stipulare il contratto stesso. Nella presente analisi si farà riferimento, col termine prelazione, al secondo dei significati appena richiamati, con particolare focus sulla funzione della prelazione societaria, ossia della clausola di prelazione inserita nello statuto di una società (specificamente di S.p.A. o di S.r.l.).

La prima domanda da porsi è quali siano le conseguenze della violazione delle suddette obbligazioni. Per rispondere a tale quesito, appare necessario una breve analisi sulla natura, sociale o parasociale, della clausola in esame. Secondo un minoritario (e più risalente) orientamento dottrinale e giurisprudenziale, il diritto di prelazione, benché inserito nello statuto sociale, sarebbe pur sempre funzionale ad interessi individuali ed extrasociali dei soci, dal momento che attribuirebbe il relativo diritto a tutti i soci uti singoli. Pertanto, la clausola di prelazione, attuando un regolamento di interessi tra soci estraneo” all’interesse sociale, avrebbe sempre natura parasociale.

Tale classificazione non appare di poco conto se si considera che, se si optasse per la natura parasociale, la regola prelazionaria, seppur inserita nello statuto, non si eleverebbe quale norma a valenza organizzativa della società ma avrebbe solo valore di regolamentazione di interessi personali dei soci, con la conseguente efficacia meramente obbligatoria della clausola stessa. Ciò sta a significare che, nel caso di cessione della partecipazione sociale in violazione della clausola di prelazione, l'unico rimedio possibile per i soci pretermessi sarebbe quello del risarcimento del danno, essendo la cessione valida ed efficace tanto inter partes, quanto nei confronti della società. Tale tesi, tuttavia, non sembra possa essere accolta. Infatti, l’inserimento della clausola di prelazione nello statuto determina il riconoscimento alla clausola di regola organizzativa della società e, di conseguenza, conferisce alla stessa valore sociale assoluto sia nel regolare i rapporti con la società che i rapporti tra soci, impedendo che rimanga un qualche spazio per configurare un parallelo ambito/natura parasociale” ([1]).

Così intesa, la clausola di prelazione avrebbe, secondo un'espressione frequentemente utilizzata sia in dottrina che in giurisprudenza, efficacia reale(anche se, con espressione più appropriata, si dovrebbe dire che la clausola di prelazione sarebbe opponibile erga omnes). Traducendo il tutto in termini pratici, riprendendo un'importante pronuncia della Suprema Corte, la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta linopponibilità (della cessione) nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione, pur rimanendo valido inter partes (ossia tra socio cedente e terzo cessionario) l'atto di cessione ([2]).

Se in passato si era propensi a riconoscere alla clausola di prelazione una mera valenza obbligatoria, tesa alla tutela di interessi individuali uti singuli, l’orientamento prevalente oggi ne valorizza la funzione tipicamente sociale, in quanto diretta al mantenimento di un determinato equilibrio nella composizione della compagine societaria. L’inserimento della clausola nello statuto implica, dunque, un’efficacia opponibile erga omnes, con conseguente inopponibilità della cessione compiuta in sua violazione nei confronti della società e dei soci prelazionari. Tuttavia, tale realità non si spinge fino a configurare un diritto potestativo in capo al socio pretermesso di riscattare la partecipazione, né implica la nullità del trasferimento.

 

2.

Ci si chiede quali siano le conseguenze dell'inefficacia nei confronti di determinati soggetti (soci e società) e della, contemporanea, validità/efficacia nei rapporti tra cedente e cessionario?

In tal senso, occorre analizzare le singole posizioni dei soggetti coinvolti e i rapporti che intercorrono tra loro.

Per il terzo cessionario, effetto principale dell'inefficacia della cessione nei confronti della società sarà che costui non potrà acquisire lo status socii e, conseguentemente, non potrà esercitare tanto i diritti patrimoniali quanto i diritti amministrativi. E, ben inteso, ciò anche qualora avvenga l'iscrizione del cessionario a libro soci (per le S.p.A.) o nel registro delle imprese (per le S.r.l.), in quanto l'ottenimento dell'iscrizione non potrebbe esplicare alcun effetto sanante delloperazione.

Per quanto attiene alla posizione del socio cedente, secondo parte della giurisprudenza, dichiarato inefficace rispetto alla società il trasferimento a titolo oneroso delle azioni avvenuto senza il rispetto della clausola statutaria di prelazione, il cedente rimane legittimato allesercizio dei diritti sociali inerenti le azioni in forza della iscrizione nel libro soci” ([3]).

Tale ricostruzione sarebbe condivisibile qualora si aderisse alla tesi secondo cui la cessione della partecipazione in violazione della clausola statutaria di prelazione comporti la nullità o l'annullamento dell'atto, in quanto nessun trasferimento patrimoniale si produrrebbe tra i contraenti. Tale tesi, tuttavia, non appare accettabile considerato che il contratto di cessione in sé non presenta vizi o difetti che determinino la nullità o l'annullabilità dell'atto, in quanto il cedente è certamente legittimato a disporre delle partecipazioni, dato che la clausola di prelazione statutaria non ne limita la legittimazione ma ne condiziona soltanto l'efficacia. Pertanto, essendo valida ed efficace la cessione inter partes, neanche il socio cedente sarebbe legittimato ad esercitare i diritti sociali in quanto non più proprietario. Tuttavia, giungere a tale conclusione produrrebbe una possibile situazione di stallo, in cui né cedente né cessionario sono legittimati ad esercitare i diritti sociali. Al fine di evitare ciò, si è ritenuto che il socio cedente, stante l'inefficacia della cessione nei confronti della società, essendo ancoraiscritto nel libro soci (o nel registro delle imprese), sarebbe legittimato ad esercitare i diritti sociali.

Ad ogni modo, anche questa soluzione non può essere suffragata, tenuto conto della ratio della clausola di prelazione: l'inserimento della stessa nello statuto societario risponde allinteresse sociale a mantenere tendenzialmente omogenea la compagine societaria, evitando lingresso di terzi estranei che potrebbero alterare l'equilibrio formatosi, evidentemente ritenuto ottimale per il miglior conseguimento delloggetto sociale, determinando peraltro anche la moltiplicazione dei partecipanti alla società e il rischio di scalate ostili. La clausola di prelazione, dunque, avrebbe la funzione di evitare l'ingresso di soggetti sgraditi all'interno della compagine sociale.

Motivo per cui, ove dovessero essere riconosciuti diritti sociali al socio venditore, vi è l'inaccettabile rischio che quest'ultimo possa trasformarsi in un prestanome dell'acquirente qualora questi accettasse di esercitare i diritti sociali nell'interesse del cessionario, raggirando così gli interessi che si sono voluti tutelare con linserimento nello statuto della clausola di prelazione. E comunque, al di là di ogni possibile accordo, il socio cedente (apparentemente legittimato) verserebbe in una situazione di indifferenza che rischia di sfociare in un conflitto continuo, come tale idonea a inquinare il procedimento decisionale. D'altronde, come osservato in dottrina, quale che sia l'interesse concreto che ispirerebbe il voto dell'apparente legittimato non proprietario delle azioni (o comunque disinteressato ad esse), esso si collocherebbe per definizione fuori dall'area del contratto sociale ([4]). 

Tale situazione di congelamentodella partecipazione ceduta, in cui né il cedente né il cessionario sarebbero legittimati ad esercitare alcun diritto sociale, potrebbe produrre una pericolosa situazione di stasi in seno alla società. Basti pensare alle possibili ripercussioni in materia di quorum costitutivo, specialmente nell'ambito delle assemblee straordinarie (per le S.p.A.) e delle decisioni dei soci di cui all'art. 2479 n.4 e 5 c.c. (per le S.r.l.).

Ci si chiede dunque come possa essere superata tale situazione di stallo.

Ebbene, sul punto è stato osservato che “Nulla quaestio nel caso in cui siano le stesse parti a far venir meno gli effetti del contratto. Infatti, è ben possibile che in seguito alla privazione della legittimazione ad esercitare i diritti sociali, il terzo cessionario agisca per la risoluzione del contratto (per mancanza delle qualità essenziali ex art. 1497 c.c., o, in via alternativa, per dazione dialiud pro alio”).

Ancora, secondo un'altra possibile soluzione prospettata da una recente pronuncia, appare più confacente […] ritenere che la cessione di quote in violazione dellaltrui diritto di prelazione, quando la violazione era nota a cedente e cessionario, debba essere ritenuta implicitamente sottoposta alla condizione risolutiva dellesercizio (fruttuoso) dellazione per declaratoria di inefficacia della cessione stessa (o dellesercizio fruttuoso di uneccezione stragiudiziale di inefficacia che sia accolta dalla società, che, quindi, provveda a far cancellare la cessione dal registro delle imprese)” ([5]).

Pertanto, o attraverso lo strumento della risoluzione del contratto (che potrebbe avvenire anche per mutuo consenso) o con l'apposizione di una condizione risolutiva “implicita”, le parti potrebbero porre nel nulla gli effetti del contratto concluso in violazione della clausola di prelazione”([6]).

 

3.

Da quanto precede ne discende che la clausola di prelazione, laddove inserita nello statuto sociale, acquista una rilevanza che travalica l’ambito meramente contrattuale per assumere una valenza marcatamente societaria. Non si tratta, infatti, di una semplice pattuizione tra soci, bensì di una previsione che incide direttamente sull’organizzazione dell’ente. Ciò in quanto la clausola in esame, al pari di quelle di gradimento, è funzionalmente diretta a tutelare l’identità e la stabilità del gruppo sociale, rafforzando la componente personale rispetto a quella patrimoniale.

Può quindi dirsi che la clausola statutaria di prelazione non è più regolata esclusivamente dalle norme sul contratto, ma si inserisce nel più ampio contesto della disciplina societaria, con le relative implicazioni sistematiche.

In caso di trasferimento di partecipazioni sociali in violazione della clausola di prelazione statutaria, non si configura un’ipotesi di nullità dell’atto, né per contrarietà a norma imperativa né per impossibilità dell’oggetto. Il negozio di trasferimento rimane valido ed efficace tra le parti stipulanti (cedente e acquirente), ma risulta inefficace nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione. La tutela riconosciuta ai soggetti pretermessi, dunque, non si sostanzia in un diritto potestativo di riscatto (retratto), che rimane estraneo alla disciplina generale delle obbligazioni contrattuali salvo specifica previsione normativa, bensì in una tutela di tipo reale e risarcitorio. In particolare, la violazione comporta: l’inopponibilità del trasferimento ai soci legittimati e alla società; l’obbligo risarcitorio per il danno derivante dall’inadempimento contrattuale ([7]).

Nel quadro dei rimedi esperibili, assume rilievo anche la possibilità di ricorrere a misure cautelari, in particolare al sequestro giudiziario previsto dall’art. 670 c.p.c. Tale istituto può essere richiesto tutte le volte in cui si renda necessaria la conservazione dell’integrità del bene oggetto di contesa – nel caso di specie, le partecipazioni societarie – al fine di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale che potrà essere accordata in sede di merito. Presupposti imprescindibili per la concessione del sequestro sono: il fumus boni iuris, ovvero la verosimiglianza del diritto fatto valere (in particolare, l’inefficacia del trasferimento e la lesione del diritto di prelazione); il periculum in mora, inteso come rischio di un pregiudizio grave e irreparabile che potrebbe compromettere l’attuazione della futura decisione giudiziale ([8]).


4.

In tali circostanze, può configurarsi un abuso del diritto qualora il socio, consapevole dell’efficacia limitata della cessione, strumentalizzi la clausola di prelazione per impedire l’ingresso del terzo, pur non avendo alcun interesse concreto a mantenere la partecipazione. Analogamente, l’inerzia del cessionario – che non agisce per risolvere il contratto – può contribuire al congelamento della quota, bloccando ogni possibilità di esercizio dei diritti sociali. In questo quadro, la giurisprudenza ha tentato di ovviare ipotizzando la presenza di una condizione risolutiva implicita del contratto in caso di successo dell’azione di inefficacia, ma si tratta di un rimedio non sempre operativo né preventivamente concordato dalle parti ([9]).

La giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione ha nuovamente affrontato il tema dell’abuso di maggioranza quale causa di annullabilità della deliberazione assembleare, riconducendolo, in linea con un orientamento ormai consolidato, alla violazione del canone della buona fede oggettiva quale regola di condotta nell’esecuzione del contratto di società. Con la sentenza n. 4034 del 14 febbraio 2024, la Suprema Corte ha ribadito che sussiste abuso di maggioranza ogniqualvolta il voto espresso dai soci risulti privo di giustificazione nell’interesse sociale e persegua, al contrario, uno scopo personale antitetico a quello della società, ovvero risulti frutto di un’attività fraudolenta volta intenzionalmente a ledere i diritti, patrimoniali o partecipativi, dei soci di minoranza uti singuli. Tali conclusioni si innestano su un filone giurisprudenziale costante ([10]), che individua nell’interesse sociale l’unico parametro di legittimità della volontà assembleare, con la conseguente sanzione di annullabilità della delibera qualora esso venga surrettiziamente disatteso.

Elemento dirimente ai fini dell’accertamento dell’abuso è l’assolvimento, da parte dell’attore, dell’onere probatorio circa l’illegittimità della deliberazione. La prova dell’abuso, com’è noto, non può che fondarsi su un accertamento indiziario e presuntivo, nel rispetto dei canoni di gravità, precisione e concordanza (Cass. civ., n. 26387/2005). Si tratta di una prova particolarmente delicata, in quanto volta a dimostrare l’alterazione della funzione dell’atto deliberativo rispetto alla finalità tipica che ne giustifica l’esercizio.

In tale contesto, la giurisprudenza ha riconosciuto natura e funzione organizzativa alla clausola di prelazione statutaria, in quanto espressione di un equilibrio tra la componente personalistica e quella capitalistica dell’ente, equilibrio che i soci possono modulare in funzione delle specifiche esigenze societarie ([11]).

La modifica o la soppressione di tale clausola incide inevitabilmente sulle posizioni organizzative dei soci, in quanto ne compromette le prerogative partecipative. Particolarmente lesiva appare la modifica che ne limiti l’efficacia solo all’interno della compagine, escludendo il diritto di ciascun socio di prelazionare le partecipazioni altrui: tale intervento regolamentare è suscettibile di alterare la parità di opportunità tra i soci e, dunque, l’assetto partecipativo interno, con riflessi diretti sulla possibilità per ciascun socio di rafforzare la propria posizione.

A fronte di un simile deterioramento delle posizioni individuali, è necessario accertare se l’intervento assembleare sia stato adottato in funzione strumentale e preordinata a ledere il socio di minoranza, eventualmente a beneficio esclusivo del socio di maggioranza. In tal caso, la delibera si porrebbe in contrasto con l’art. 1375 c.c., che impone, anche in ambito societario, l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, cooperando affinché ciascun contraente (recte: socio) possa salvaguardare le proprie utilità legittime, sempreché tale salvaguardia non comporti un apprezzabile sacrificio per le ragioni altrui.

In dottrina si è sottolineato, in maniera persuasiva, che, qualora il conflitto assembleare investa interessi parimenti legittimi – siano essi negoziali o non negoziali – il principio di maggioranza deve ritenersi pienamente operante, rappresentando l’adesione al contratto sociale una implicita accettazione delle regole assembleari come strumento di decisione collettiva funzionale al perseguimento dello scopo comune. Tuttavia, nel caso in cui la maggioranza agisca perseguendo fini extra-sociali o deliberatamente escludenti nei confronti di uno o più soci, l’esercizio del potere assembleare si spoglia della sua legittimità e assume connotati abusivi. In simili ipotesi, il principio di maggioranza non può fungere da scudo giustificativo, in quanto viene meno la coerenza funzionale tra il potere e l’atto con cui esso si manifesta. È in questa prospettiva che l’ordinamento, valorizzando il principio generale di correttezza e buona fede, nega tutela a comportamenti e atti formalmente legittimi ma sostanzialmente distorti, in quanto esercitati in violazione delle regole del corretto agire ([12]).

A conferma della rilevanza sistematica della categoria dell’abuso nel diritto societario, va richiamato anche l’orientamento espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 20625 del 29 settembre 2020, in relazione all’esercizio del potere di deliberare lo scioglimento anticipato della società. In tale occasione, la Corte ha chiarito che la deliberazione assembleare di scioglimento non integra, di per sé, abuso di maggioranza né conflitto d’interessi rilevante ex art. 2373 c.c., nemmeno nell’ipotesi in cui il socio di maggioranza sia debitore della società. Tuttavia, la stessa sentenza ammette la possibilità che la deliberazione possa essere impugnata per abuso, allorché emerga l’assenza di una giustificazione nell’interesse sociale e la deliberazione risulti funzionale al perseguimento di interessi estranei o addirittura lesivi per gli altri soci. Ciò conferma l’approccio casistico e sostanzialistico adottato dalla giurisprudenza, che valuta il legittimo esercizio del potere assembleare non in base alla sua astratta configurazione, bensì alla concreta finalizzazione dell’atto rispetto agli interessi legittimi che l’ordinamento intende proteggere.

 

5.

La clausola di prelazione statutaria rappresenta un importante strumento di tutela e controllo della compagine sociale, finalizzato a preservare l’equilibrio e l’identità del gruppo dei soci, evitando l’ingresso di terzi non graditi che potrebbero alterare l’assetto societario. La sua natura non è meramente contrattuale o obbligatoria, bensì organizzativa e reale, con effetti rilevanti nei rapporti tra soci e con la società stessa. La violazione di tale clausola non determina la nullità della cessione della partecipazione, che rimane efficace tra cedente e cessionario, ma produce l’inefficacia del trasferimento nei confronti della società e degli altri soci titolari del diritto di prelazione. Questa situazione può generare problemi pratici, come lo stallo” nella titolarità dei diritti sociali, potenzialmente capace di bloccare il funzionamento decisionale della società. Il rischio di abuso del diritto emerge quando i soci violano la clausola di prelazione per ragioni estranee all’interesse sociale, ad esempio per ostacolare strumentalmente l’ingresso di terzi, oppure quando il cessionario non agisce per risolvere la situazione, contribuendo a congelare la partecipazione. In questi casi, il sistema giuridico si fonda sul principio di buona fede e correttezza, prevedendo sanzioni come l’annullabilità delle delibere assembleari adottate in abuso di potere e il ricorso a misure cautelari per tutelare gli interessi legittimi dei soci. In definitiva, la clausola di prelazione, oltre a tutelare singoli interessi, assume un ruolo centrale nella governance societaria, bilanciando la componente personale e quella patrimoniale della compagine sociale. La sua efficacia e la necessità di rispettarla sono fondamentali per garantire la stabilità della società e la leale cooperazione tra soci, nel rispetto della buona fede e dell’interesse sociale.



[1] Carlo Alberto Busi - La prelazione societaria, Cedam, 2019.

[2] cfr. Cass. Civ. 2 dicembre 2015, n. 24559.

[3] Cfr. Tribunale di Napoli, ordinanza 7 aprile 2005, in Foro.it.

[4] Sul punto si consulti: F. Murino, Circolazione della quota, legittimazioni e autonomia privata nella S.r.l. Milano, 2017.

[5] Cfr. Tribunale di Milano, 20 ottobre 2016, n. 11519, in Banche Dati Merito.

[6] Cfr. M. Sabini, La cessione di partecipazioni societarie in violazione della clausola statutaria di prelazione, gennaio 2022.

[7] Tribunale di Roma, sentenza 13 luglio 2023, in Giurisprudenza delle Imprese: Il patto di prelazione, inserito nello statuto di una società di capitali ed avente ad oggetto lacquisto delle azioni sociali, siccome preordinato a garantire un particolare assetto proprietario ha efficacia reale e, in caso di violazione, è opponibile anche al terzo acquirente. La violazione di tale clausola statutaria comporta linopponibilità nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione della cessione della partecipazione societaria, nonché l’obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sullinadempimento delle obbligazioni. L’efficacia reale del patto non implica la configurabilità di un diritto potestativo del socio pretermesso di riscattarela partecipazione nei confronti dellacquirente e pertanto, proprio per la struttura e la natura della clausola di prelazione statutaria, il socio pretermesso non può ottenere una pronuncia di risoluzione o di nullità dellatto di compravendita della partecipazione sociale (né tantomeno il riscatto), ma soltanto una pronuncia di accertamento dellinefficacia dellatto medesimo nei confronti della società. Questultima, infatti, è tenuta a non considerare socio il soggetto che abbia acquistato la quota sociale sulla base di un atto posto in essere in violazione della clausola di prelazione. Nel caso in cui, nonostante lintervenuta accettazione della denuntiatio da parte del socio prelazionario, la partecipazione venga alienata ad un terzo, viene in rilievo direttamente il disposto di cui al terzo comma dellart. 2470 c.c. Infatti, poichè il contenuto della denuntiatio ha la natura e gli effetti di una proposta contrattuale, la semplice accettazione da parte del destinatario è idonea a perfezionare il contratto di trasferimento delle partecipazioni, con conseguente immediato trasferimento della partecipazione sociale in favore del prelazionario. Verificandosi una siffatta ipotesi, si deve valutare se lintervenuto acquisto perfezionatosi mediante laccettazione del prelazionario della denuntiatio debba in ogni caso prevalere rispetto allacquisto effettuato dal terzo, applicando lultimo comma dellart. 2470 c.c. che impone di tener conto della buona fede nellacquisto del secondo acquirente della quota. Quanto alla buona fede, essa va intesa come mancata possibilità di conoscenzae di conseguenza non giova se lignoranza dipende da colpa grave. Il primo comma dellart. 669-septies c.p.c. dispone che lordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dellistanza per il provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto. Lidentità delle domande cautelari deve essere comunque rapportata alla prospettata domanda di merito, sicché la diversità di causa petendi e di petitum delle due domande di merito comporta la non sovrapponibilità della domanda cautelare (e lesclusione dellesistenza di un giudicato cautelare).”

[8] Tribunale di Catanzaro, 4 ottobre 2022, in Giurisprudenza delle Imprese: “La violazione del diritto di prelazione previsto nello statuto non comporta la nullità del trasferimento né, tanto meno, lassegnazione delle azioni oggetto di trasferimento al socio pretermesso. Con linserimento della clausola di prelazione nellatto costitutivo si attribuisce alla medesima, al pari di qualsiasi altra pattuizione riguardante posizioni soggettive individuali dei soci che venga iscritta nello statuto dellente, anche un valore rilevante per la società. Induce a siffatta conclusione il rilievo che clausole, come quelle di prelazione o di gradimento, sono senza dubbio finalizzate dalla volontà dei soci, secondo quanto i medesimi valutino più adatto alle esigenze dellente, ad incidere sul rapporto tra lelemento patrimoniale e quello personale della società, accrescendo il peso del secondo rispetto al primo. Ne discende che le clausole in questione, venendo ad assolvere anche ad una funzione specificamente sociale, atteso il loro inserimento nellatto costitutivo o nello statuto dellente, cessano di esser regolate dai soli principi del diritto dei contratti, per rientrare, invece, nellorbita più specifica della normativa societaria. Infatti, alla clausola statutaria di prelazione deve attribuirsi efficacia reale, i cui effetti sarebbero opponibili anche al terzo acquirente. Ad ogni modo, la realità della clausola non può condurre alla nullità del trasferimento operato in violazione del patto di prelazione, non versandosi in ipotesi di violazione di norma imperativa, né alla declaratoria di nullità per impossibilità delloggetto per indisponibilità della partecipazione ceduta; al contrario, può condurre unicamente ad una pronuncia dinefficacia del trasferimento in favore del socio pretermesso e/o della società. Più in particolare, la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta linopponibilità, nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione, della cessione della partecipazione societaria (che resta, però, valida tra le parti stipulanti), nonché l’obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, secondo i principi generali in tema di inadempimento delle obbligazioni. La violazione della clausola statutaria di prelazione non comporta in favore del socio pretermesso anche il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti dellacquirente, atteso che il c.d. retratto non integra un rimedio generale in caso di violazioni di obbligazioni contrattuali, ma solo una forma di tutela prevista dalla legge in specifici casi da reputarsi tassativi. I presupposti per lemanazione di un provvedimento di sequestro giudiziario sono il fumus boni juris e il periculum in mora, specificamente tipizzati dallart. 670 c.p.c. In particolare, il sequestro giudiziario è ammissibile tutte le volte in cui ricorra la necessità di garantire lattuazione di futuri provvedimenti di tutela giurisdizionale, tenuto conto della particolare correlazione esistente tra loggetto del sequestro e loggetto della pretesa che viene dedotta nel giudizio di merito.”

[9] Cfr. Trib. Milano, 20 ottobre 2016, n. 11519, in Banche Dati Merito.

[10] Cfr. Cass. civ., nn. 27387/2005; 15942/2007; 15950/2007; 23823/2007; 20625/2020; sez. un., n. 2767/2023.

[11]Cass. civ., nn. 12370/2014; 24559/2015.

[12] Cass. civ., n. 26541/2021.


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