Diritto dei Mercati Finanziari


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 298 - pubb. 01/07/2007

Diritto alla documentazione, presupposti

Tribunale Bari, 17 Novembre 2005. ..


Intermediazione finanziaria – Annullamento di ordini per vizio del consenso – Presupposti – Onere della prova – Contenuti


Intermediazione finanziaria – Vendita diretta del titolo – Conflitto di interessi – Onere della prova – Contenuti


Intermediazione finanziaria – Onere della prova a carico dell’intermediario – Onere di allegazione carico dell’investitore – Sussistenza



L’annullamento di ordini di negoziazione per vizio del consenso e, in particolare, per errore essenziale e riconoscibile dalla banca (che avrebbe dovuto informare l’investitore dei rischi dell’investimento) sull’oggetto ovvero sulla qualità essenziale dei titoli, presuppone la dimostrazione che, qualora avesse ricevuto adeguate informazioni al momento della contrattazione l’investitore non avrebbe certamente compiuto l’operazione. Ai fini dell’errore richiesto per l’annullamento del contratto è irrilevante il successivo andamento e peggioramento dei titoli. (Nel caso di specie, la domanda dell’investitore è stata respinta perchè i prodotti negoziati, al momento dell’acquisto, non potevano considerarsi totalmente inaffidabili e perché l’investitore era soggetto esperto con considerevole propensione al rischio).


La circostanza che la banca già detenesse il titolo nel proprio portafoglio - in mancanza di qualsiasi allegazione in ordine ad un danno subito dal cliente (sotto il profilo, ad esempio, dell'equità del prezzo corrisposto) - non è di per sé decisiva per ravvisare un conflitto di interessi. Perché tale ipotesi ricorra, è necessario che l'intermediario abbia un interesse «a trasferire al cliente quell'elevatissimo rischio che altrimenti correrebbe in proprio» detenendo appunto quei titoli che il cliente acquisisce e tale circostanza deve essere adeguatamente provata.


La regola contenuta nell’art. 23, co. 6, del t.u.i.f, secondo al quale «Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta» opera esclusivamente sul piano probatorio, nel senso che introduce (o, ad avviso di una dottrina, rafforza) la regola (già presente in ambito contrattuale, ai sensi degli artt. 1218 e 1176 c.c.) secondo cui l'onere della prova dell'esatto e corretto adempimento (ovvero della causa non imputabile dell'inadempimento) è a carico del debitore (l’intermediario) a vantaggio del creditore (cliente). La norma in esame, tuttavia, non introduce alcuna inversione o facilitazione dell'onere - che, secondo i principi generali, è a carico di chi agisce in giudizio - di precisa allegazione dei fatti costitutivi della domanda, soltanto all'esito della quale può scattare l'onere probatorio (contrario) posto a carico del debitore o, in alternativa, operare il meccanismo della non contestazione.
 



Omissis


- 5. Seguendo l'ordine delle domande proposto dall'attore, va innanzitutto esaminata quella volta alla declaratoria di nullità dei contratti di acquisto dei titoli Parmalat. Essa è senza dubbio domanda nuova e, quindi, inammissibile, oltre che infondata nel merito per le ragioni già espresse da questa sezione in numerosi precedenti conformi cui si fa riferimento (v sent. in data 25.5/13.6.2005 citata).

- 6. L'I. ha chiesto l'annullamento dei contratti inter partes per vizio del consenso e, in particolare, per errore essenziale e riconoscibile dalla banca (che avrebbe dovuto informarlo dei rischi dell'investimento) sull'oggetto ovvero su una qualità essenziale dei titoli Parmalat (art. 1429, n. 1 e 2, c.c.). La domanda è infondata per mancanza di prova della essenzialità o riconoscibilità dell'errore (art. 1428 c.c.), come già ritenuto da questa sezione in numerosi precedenti conformi cui si fa riferimento (v., tra le altre, seppur con riguardo ai bond argentini, sent. in data 25.5/13.62005 citata). Trattandosi di vizio determinante la formazione della volontà negoziale, egli avrebbe dovuto dimostrare che, qualora avesse ricevuto le informazioni dovute nel momento della contrattazione dei titoli, non li avrebbe certamente acquistati, essendo quindi irrilevante (ai fini dell'errore richiesto per l'annullamento del contratto) il successivo andamento (e peggioramento) dei titoli stessi.

Una tale ipotesi, tuttavia, non può essere formulata sia perché, al momento della sottoscrizione degli ordini (rispettivamente maggio 2002, ottobre 2001 e febbraio 2002), non si può sostenere che i titoli Parmalat fossero totalmente privi di affidabilità (v., sul punto, le osservazioni contenute a pag. 11-16 della comparsa di risposta della Unicredit Banca, cui si fa riferimento ai sensi dell'art. 16, co. 5, d.lgs. n. 5/2003) sia perché l'I., come si vedrà, era un investitore molto esperto con una propensione al rischio considerevole, come dimostrato dalle sue rilevanti esperienze finanziarie.

Il rigetto delle domande di annullamento e di nullità dei contratti determina il rigetto (ovvero l'assorbimento) anche delle consequenziali domande di restituzione del capitale investito e di risarcimento dei danni per la «mancata percezione degli interessi sulla sorte capitale» ed il «mancato guadagno per non aver diversamente impiegato le relative cifre in altri investimenti remunerativi».

- 7. La domanda «in via gradata ed ulteriore» di condanna al risarcimento dei danni (sub b delle conclusioni) dev'essere qualificata come di responsabilità contrattuale da inadempimento alle obbligazioni cui la banca è tenuta ex lege nei confronti del cliente nella prestazione dei servizi di investimento e accessori» (art. 21, co. 1, t.u.i.f.) già per effetto del contratto generale di investimento e, comunque, dei singoli contratti di acquisto dei titoli Parmalat.

a) l'attore ha dedotto, del tutto genericamente, la situazione di conflitto di interessi in capo alla Unicredit Banca nella negoziazione dei titoli Parmalat perché detenuti dalla banca nel proprio portafoglio oppure per avere lucrato la differenza tra il prezzo di acquisto dei titoli sul mercato e quello di cessione all'acquirente. Ha richiamato l'art. 21, lett. c), del t.u.i.f. (a norma del quale i soggetti abilitati devono «organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento») e l'art. 27 del reg. Consob («Gli intermediari autorizzati non possono effettuare operazioni con o per conto della propria clientela se hanno direttamente o indirettamente un interesse in conflitto, anche derivante da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di società del gruppo, a meno che non abbiano preventivamente informato per iscritto l'investitore sulla natura e l'estensione del loro interesse nell'operazione e l'investitore non abbia acconsentito espressamente per iscritto all'effettuazione dell'operazione»).

È necessario chiarire che la negoziazione per conto proprio - che consiste nell'attività di acquisto (per la rivendita) e di vendita per conto proprio di strumenti finanziari, con lo scopo per la banca di realizzare una differenza (spread) tra prezzi di acquisto e quelli di vendita - è attività legittima e regolamentata dall'ordinamento (v art. 1, co. 5, lett. a, del t.u.i.f. e art. 32, co. 5, del reg. Consob) e, pertanto, non integra di per sé un'attività in conflitto di interessi. La Consob, nella Comunicazione n. DAL/97006042 del 9.7.1997, ha chiarito che «una ipotesi di conflitto di interessi non può essere individuata - a priori - in tutti i casi in cui l'intermediario negozia in contropartita diretta con la propria clientela strumenti finanziari».

Nel caso in esame, dalle conferme d'ordine di acquisto n. TKTO/00/61/1 in data 19.10.2000 (doc. 23/fasc. Unicredit) e n. A017456/ 02/42/1 in data 15.2.2002 (doc. 26/fasc. Unicredit) risulta e, comunque, non è contestato (non avendo l'attore offerto alcuna specifica allegazione in senso contrario) che la Unicredit Banca ha venduto i titoli senza applicare commissioni, nell'ambito di negoziazioni in conto proprio disciplinate dall'art. 32, co. 5, del reg. Consob più volte citato («Nella prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio gli intermediari autorizzati comunicano all'investitore, all'atto della ricezione dell'ordine, il prezzo, al quale sono disposti a comprare o a vendere gli strumenti finanziari ed eseguono la negoziazione contestualmente all'assenso dell'investitore: sul prezzo pattuito non possono applicare alcuna commissione»). La circostanza (peraltro non dimostrata) che la banca già detenesse il titolo nel proprio portafoglio - in mancanza di qualsiasi allegazione in ordine ad un danno subito dal cliente (sotto il profilo, ad esempio, dell'equità del prezzo corrisposto) - non è di per sé decisiva per ravvisare un conflitto di interessi, poiché, nelle negoziazioni eseguite per conto proprio, l'intermediario, agendo in qualità di dealer, non può «preleva(re) il titolo dal proprio portafoglio» (v. Comunicazione Consob n. DI/99014081 del 1.3.1999).

In ogni caso, come già osservato da questa sezione (v., tra le altre, la sent. 25/13.6.2005 n. 13471, r.g. n. 53854/04), non pare ragionevole ritenere che un conflitto di interessi ricorra allorquando l'intermediario diviene portatore dell'interesse al conseguimento della commissione (ad es., nella negoziazione per conto terzi). In tali situazioni v'è la normale contrapposizione di interessi delle controparti, che si verifica in tutti i rapporti contrattuali.

Occorre, invece, come è stato esattamente rilevato da Trib. Venezia 22.11.2004 (in I contratti, 2005, 5), che l'intermediario abbia un interesse «a trasferire al cliente quell'elevatissimo rischio che altrimenti correrebbe in proprio» detenendo appunto quei titoli che il cliente acquisisce. Né, in considerazione delle gravi carenze nelle allegazioni dell'attore sul punto, potrebbe pervenirsi a conclusioni diverse richiamando quanto stabilito, in materia, dall'art. 23, co. 6, del t.u.i.f: «Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta».

Questa disposizione, infatti, opera esclusivamente sul piano probatorio, nel senso che introduce (o, ad avviso di una dottrina, rafforza) la regola (già presente in ambito contrattuale, ai sensi degli artt. 1218 e 1176 c.c.) secondo cui l'onere della prova dell'esatto e corretto adempimento (ovvero della causa non imputabile dell'inadempimento) è a carico del debitore (cioè, in questo caso, della banca), a vantaggio del creditore (cliente). Essa non introduce alcuna inversione o facilitazione dell'onere - che, secondo i principi generali, è a carico di chi agisce in giudizio - di precisa allegazione dei fatti costitutivi della domanda, soltanto all'esito della quale può scattare l'onere probatorio (contrario) posto a carico del debitore o, in alternativa, operare il meccanismo della non contestazione.

b) L'attore, inoltre, ha dedotto l'inadempimento della Unicredit Banca alla c.d. suitability rule, in base alla quale essa avrebbe dovuto informarlo della non adeguatezza dell'investimento, con la conseguenza che dovrebbe ritenersi responsabile del danno cagionato, ai sensi dell'art. 21, lett. a (che impone ai soggetti abilitati, ai sensi dell'art. 1 lett. r, di «comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell'interesse dei clienti e per l'integrità dei mercati») e lett. b (di «acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati») del t.u.i.f. In attuazione delle sopra citate disposizioni del t.u.i.f , il reg. Consob n, 11522/1998 ha previsto l'obbligo dei soggetti abilitati di «chiedere all'investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento, nonché circa la sua propensione al rischio» e di consegnargli «il documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari» (art 28, co. 1 e All. n. 3).

Per dire se le suddette disposizioni siano state o meno adempiute dalla Unicredit Banca è necessario valutare il profilo «finanziario» di I., avvocato fiscalista ed amministratore di società finanziarie: della *** s.r.l., oltre che della *** s.a.s. Tale profilo risulta descritto a pag. 13-21 della comparsa conclusionale della Unicredit (cui si fa riferimento ai sensi dell'art. 16, co. 5; d.lgs. n. 5/2003) e nella conforme e condivisibile sentenza di questa sezione in data 2.5/13.6.2005 n. 13471 (r.g. n. 53854104). Qui si legge che egli è un «risparmiatore che quanto meno può definirsi incline ad operazioni speculative: in proposito l'estratto conto dei movimenti titoli prodotti dalla banca pone in luce che, alla medesima data del 23 ottobre 2000, risultano contabilizzati, oltre i bond della Repubblica Argentina, diversi acquisti, per valori monetari considerevoli, di titoli ad alto rendimento (€ 108.000,00 in obbligazioni Parmalat, con rendimento al 7%; € 108.000,00 in titoli di Stato emessi dal Brasile, con rendimento al 9,50%; e 36.000,00 in titoli di Stato emessi dalla Colombia, con rendimento all'11,25%).

Non va, poi, trascurato di considerare che le obbligazioni argentine acquistate dall'attore presentavano un tasso variabile di rendimento, non precisato in atti, per sua natura esposto a sicura fluttuazione in base agli apprezzamenti del mercato. I termini dell'ordine alla banca (cfr. ordine di acquisto del 18 ottobre 2000) prevedono che l'acquisto sarebbe dovuto avvenire con il limite di prezzo di 103,60, quindi sopra la pari.

Infine, il rating fissato dai principali operatori internazionali del settore - quale è dato desumere dagli atri di causa (audizione del Presidente della CONSOB da parte della Camera dei Deputati in data 27 aprile 2004 sulla diffusione in Italia di obbligazioni pubbliche argentine) e da pubblicazioni specializzate reperibili sulla rete internet - assegnavano ai titoli in esame un grado di affidabilità bassa o insufficiente, con probabilità di insolvenza compresa fra 1/4 e 1/2 e un carattere sicuramente speculativo all'investimento.

Ebbene, la valutazione congiunta di tutti questi elementi e delle caratteristiche personali dall'attore (avvocato esperto di diritto tributario e, verosimilmente, di bilanci, per essere anche amministratore unico di una società avente ad oggetto sociale consulenza ed assistenza nel settore finanziario e partecipazioni mobiliari in genere: circostanze puntualmente documentate dalla parte convenuta e comunque non contestate) inducono il convincimento che l'avv. I. intendesse fermamente effettuare un consistente investimento (€ 360.000,00) speculativo, mirando a conseguire alti rendimenti a fronte di elevati rischi (non è senza rilievo la circostanza che i titoli contestualmente acquistati fossero emessi, per ben il 70%, da cd. Stati emergenti).

Non lascia adito a dubbi, al riguardo, il tenore della precisazione contenuta nell'ordine di acquisto, sottoscritto dall'attore: "dichiaro che mi è stato spiegato a sufficienza il contenuto di rischio e di aleatorietà del presente investimento e che ho liberamente scelto di eseguire l'operazione. Si tratta di tipologie di investimento che comportano elevati rischi di oscillazione del loro valore...". Alla luce di tali risultanze fattuali, può affermarsi che se errore vi fu da parte dell'attore esso non riguardò tanto le qualità essenziali dell'oggetto della prestazione (vale a dire le caratteristiche del titolo obbligazionario che aveva deciso di acquistare: titolo speculativo), quanto la convenienza economica dell'operazione finanziaria».

Alla luce delle qualità personali e professionali del cliente, che sono tali da far ritenere sufficiente anche una sommaria spiegazione dell'operazione mediante l'indicazione delle sue mere caratteristiche tecniche (i tre ordini si riferivano esplicitamente all'acquisto di titoli fuori dai mercati regolamentari che, solo per questo, erano maggiormente rischiosi), reputa il collegio del tutto superfluo interrogarsi sulle modalità con le quali le informazioni vennero o avrebbero dovuto essere fornite in concreto. All'attore, pertanto, non giova sostenere che nel documento relativo al c.d. «Profilo degli investitori» aveva dichiarato, per conto della ***., di avere una media propensione al rischio e di perseguire obiettivi di rivalutabilità del patrimonio. Del resto, egli si rifiutò di fornire le informazioni richiestegli circa la sua propensione al rischio e sottoscrisse per due volte (in relazione agli acquisti personali e quale rappresentante della ***) il «documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari» nel quale era stato comunque informato dei rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari e del collegamento esistente tra il tasso di interesse (notoriamente alto nei titoli Parmalat) e la rischiosità dell'investimento («quanto maggiore è la rischiosità tanto maggiore è il tasso di interesse che l'emittente dovrà corrispondere all'investitore»).

Infondato è anche il profilo della dedotta responsabilità della banca da «prospetto informativo», ai sensi dell'art. 94 del t.u.i.f. Infatti, come precisato dai convenuti, per i titoli acquistati da I. non era prevista la pubblicazione di un prospetto, la cui necessità è richiesta dalla legge nei casi di «sollecitazione all'investimento», con cui si intende «ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi forma rivolti al pubblico, finalizzati alla vendita o alla sottoscrizione di prodotti finanziari» (art. 1, co. 1, lett. t, del t.u.i.f.). Non è contestato tra le parti che i titoli in questione non erano oggetto di un'attività di «sollecitazione all'investimento» o di collocamento diretto (in prima battuta) al pubblico indistinto ma soltanto alle banche ed agli altri investitori professionali (c.d. private placement) e, in questo caso, la legge non prevede la necessità di ricorrere alla pubblicazione di un prospetto informativo da sottoporre al controllo preventivo della Consob; né era previsto il c.d. prospetto di quotazione, trattandosi di titoli non ammessi alla quotazione in Italia su un mercato regolamentato (art. 113 del t.u.i.f.). Nessuna disposizione vietava poi a questi soggetti professionali di vendere ed acquistare i titoli (in seconda battuta) nell'ambito di successive negoziazioni individuali con il pubblico dei risparmiatori (c.d. retail), attività questa  sottoposta alla disciplina generale sulla prestazione dei servizi di investimento (art. 1, co. 5, lett. a-b, del t.u.i.f.) (v. anche pag. 9 ss. della Relazione dell'audizione della Consob alla Camera dei Deputati in data 27.4.2004).

Si è detto che la domanda di condanna della Consob va qualificata come richiesta di risarcimento del danno da illecito aquiliano (art. 2043 c.c.), posto che nessun rapporto contrattuale è intercorso fra le parti e che l'attore sostanzialmente lamenta la violazione del dovere di vigilanza istituzionale che la Commissione avrebbe dovuto esercitare, a suo dire, sull'altra convenuta e, quindi, quale responsabile di una condotta (omissiva) che avrebbe concorso nella verificazione del danno. L'infondatezza della suddetta domanda è stata già affermata nei sopra richiamati recedenti di questa sezione, a parte il rilievo che la condotta della Unicredit Banca si è rivelata immune da qualsiasi irregolarità, onde la vigilanza informativa e ispettiva nei suoi riguardi non avrebbe avuto alcuna ragione di potere e tanto meno dovere essere esercitata.


- Omissis.