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Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 30/09/2025 Scarica PDF
La confisca ante-delictum nei delitti di mafia, strumento necessario, eccezionale e compatibile con la legislazione nazionale ed europea
Vincenzo Musacchio, Associato e docente di strategie di lotta alla criminalità organizzata transnazionale al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di LondraLa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) si è espressa sulla confisca preventiva dei beni di provenienza illecita, disposta dai tribunali nazionali competenti ai sensi dell’articolo 24 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, Decreto n. 159/2011). Ha ritenuto che le decisioni dei tribunali nazionali non fossero state conformi alle condizioni stabilite dal diritto e dalla giurisprudenza nazionali per l’imposizione della misura impugnata. La compatibilità della confisca ante delictum (applicata cioè prima della commissione di un delitto) con l’ordinamento nazionale ed europeo è una questione complessa e molto dibattuta in dottrina, fondata sul contrasto con i principi di legalità e responsabilità personali sancite dalla nostra Costituzione (in particolare l'art. 25), ma legittimata dalla necessità di bilanciare alcuni valori di rilievo costituzionale con la tutela della sicurezza pubblica.
La giurisprudenza e la dottrina hanno cercato di conciliare questi interessi, attribuendo alla confisca un carattere cautelare e preventivo per contrastare la pericolosità sociale, specialmente in contesti come quello della criminalità organizzata.
La giurisprudenza della CEDU ha già riconosciuto la compatibilità, in linea di principio, con la Convenzione delle procedure di confisca dei beni in assenza di una condanna che stabilisca la colpevolezza degli imputati, quando tali beni sono collegati alla presunta commissione di vari reati gravi che comportano un arricchimento senza causa. Ha anche ritenuto che i vari ricorsi proposti nel tempo erano manifestamente infondati o che non vi era stata alcuna violazione soprattutto nei casi riguardanti delitti di mafia.
Ogni volta che tocco questo tema, tuttavia, devo riconoscere che riscontro difficoltà sulla sua ubicazione sistematica. Siamo sicuramente in un campo diverso rispetto alla pena e alle misure di sicurezza. Ha, a mio parere, il carattere peculiare dell’eccezionalità. Non è fondata sulla responsabilità per un reato che si è commesso in passato, ma sul concetto di pericolosità per un reato che si potrebbe commettere in futuro. Un giudizio prognostico ex post che va dalle conseguenze ai fini. La confisca preventiva si basa sulla pericolosità del compendio patrimoniale inteso come strumento per commettere il reato, anche se la sua applicazione prescinde dall’accertamento di un fatto-reato. Poiché si fonda questa pericolosità e sul mancato accertamento di un fatto penalmente rilevante è strumento sui generis operante oltre il limite della penalità. Ha un’indubbia copertura costituzionale e quindi è da considerare legittima.
La Corte Europea ha espresso serie preoccupazioni in merito alla legislazione nazionale che prevedeva che le procedure per l'imposizione di misure simili potessero essere attivate non solo da reati particolarmente gravi come quelli legati alla criminalità organizzata, al traffico di droga, alla corruzione nel servizio pubblico o al riciclaggio di denaro ma anche per gli altri reati che potessero presumere generassero sempre reddito. Qui i giudici europei hanno ragione poiché siamo di fronte ad uno strumento eccezionale applicabile pertanto in casi straordinari nei quali ricomprenderei solo il terrorismo e la criminalità organizzata. Ciò, ovviamente, non toglie che pur essendo uno strumento eccezionale non debba ottemperare ai principi di garanzia che presidiano nostro ordinamento giuridico. Partendo dal presupposto che sul piano afflittivo non possono limitare la libertà personale potendo incidere soltanto sulla proprietà, non si assiste a una duplicazione dell’afflittività che la renderebbe sproporzionata. Si potrà forse porre un problema di proporzione in concreto, ma non in astratto. La confisca in questione può essere applicata esclusivamente a beni che si presumono provenire da attività illecite, a causa della mancanza di prove che ne dimostrano l’origine lecita; che si giustifichi solo nella misura in cui i reati presumibilmente commessi dall’individuo interessato costituissero fonte di profitti illeciti, in un importo ragionevolmente congruo con il valore dei beni da confiscare; che la misura possa essere applicata solo riguardo ai beni acquisiti dall'individuo interessato durante il periodo in cui questi ha presumibilmente commesso reati che comportavano profitti illeciti, dimostrando così che tale misura mira a prevenire l'arricchimento ingiusto sulla base della commissione di reati; che deve essere applicata solo sui profitti illeciti derivanti dai reati presumibilmente commessi dall'individuo interessato, senza estendersi al prodotto del reato La confisca in esame dunque non pone problemi neanche sul piano della pericolosità, perché l’accertamento di un fatto si basa sul sospetto di commissione di un reato mediante un compendio patrimoniale, vale a dire elemento di fatto dal quale si può ricavare il sospetto di commissione di un reato. Il requisito specifico della pericolosità sociale, pertanto, è definibile come giudizio di prognosi ex post della pericolosità. Il nodo vero diviene questo giudizio, che, di fatto, sussiste quando il patrimonio illecito è strumento di commissione del reato. Questo giudizio per i reati di criminalità organizzata e terrorismo sussiste ed è evidente per cui la confisca non diventa un surrogato del diritto penale, in altre parole si applica una sanzione a fatti rispetto ai quali manca la prova. Per quanto riguarda le garanzie procedurali e, in particolare, il livello di prova imposto alle autorità nazionali, ogniqualvolta un ordine di confisca fosse il risultato di un procedimento concernente i proventi di reato derivanti da reati gravi, la Corte non ha richiesto la prova "oltre ogni ragionevole dubbio" dell'origine illecita dei beni in tale procedimento. La prova basata su una ponderazione delle probabilità o su un'elevata probabilità di origine illecita, combinata con l'incapacità del proprietario di dimostrare il contrario, è stata ritenuta sufficiente ai fini del test di proporzionalità ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1.
Qui gli elementi di fatto dai quali scaturisce il sospetto, senza andare a indagare l’attualità della pericolosità, fanno in modo che il sistema della confisca non colpisca coloro rispetto ai quali non si è in grado di provare questo tipo di responsabilità. Il giudizio di pericolosità razionalmente configurato si compone di tre fasi: a) accertamento di un fatto; b) pericolosità in astratto, vale a dire precedenti dai quali si ricavano le caratteristiche dei reati precedentemente commessi; c) attualità del pericolo mediante la comparazione tra precedenti e fatto accertato. Per la confisca, il discorso cambia sia per il modo in cui sono impiegati i precedenti sia per la mancanza dell’accertamento di un fatto. Perché da uno stesso precedente la giurisprudenza ricava sia gli elementi di fatto dai quali ricava poi il sospetto di reato, sia i precedenti per formulare la pericolosità in astratto. I precedenti impiegati per ricavare gli elementi di fatto che fondano il sospetto devono essere diversi da quelli che sono impiegati per formulare la pericolosità in astratto, anche perché questi ultimi non possono che attenere a fatti che sono stati accertati. Per la criminalità organizzata il discorso è differente. Se si tratta di criminalità organizzata, proprio grazie al perdurare dell’organizzazione, mentre i sospetti di reato possono essere ricavati dai precedenti, l’attualità del pericolo può essere misurata attribuendo rilevanza alla persistenza o meno di legami con l’organizzazione, i quali devono essere accertati in termini reali ed effettivi. Certo, è ancora assente l’accertamento di un vero e proprio fatto di reato, ma v’è l’accertamento di un’organizzazione criminale rispetto alla quale v’è il sospetto di appartenenza. Insomma, una particolare valutazione di pericolosità senza l’accertamento di un fatto si può fare solo rispetto a reati che consistono nelle organizzazioni criminali, mentre rischia di girare a vuoto alla presenza di reati istantanei e mono-soggettivi. Come accennato, occorre un ripensamento sistematico. Le misure di prevenzione applicate alla criminalità organizzata sono sicuramente ammissibili e coerenti con il sistema giuridico nazionale ed europeo, mentre per le altre ipotesi di criminalità si potrebbe pensare ad altre forme di sanzioni.
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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
PRIMA SEZIONE
STRASBURGO
25 settembre 2025
CASO ISAIA E ALTRI CONTRO ITALIA [1]
Domande n. 36551/22, 36926/22 e 37907/22
SENTENZA
Art. 1 • Godimento pacifico dei beni • Confisca sproporzionata non basata sulla condanna (“confisca preventiva”) dei beni dei ricorrenti considerati proventi di attività illecite commesse o presumibilmente commesse dal primo ricorrente • Tempo significativo trascorso dalla commissione dei reati presupposto su cui si basava la confisca • Carenze nelle decisioni dei tribunali nazionali gravi e manifestamente incompatibili con le limitazioni e le garanzie stabilite dal diritto e dalla giurisprudenza nazionali • Mancata dimostrazione da parte delle autorità nazionali di un collegamento tra le attività criminali del primo ricorrente e i beni confiscati • Giusto equilibrio non raggiunto.
Nel caso Isaia e altri contro Italia,
La Corte europea dei diritti dell'uomo (Prima Sezione), riunita in una Camera composta da:
Ivana Jelic,
Presidente,
Erik Wennerström,
Gilberto Felici,
Raffaele Sabato,
Federico Krenc,
Davor Derencinovic,
Alain Chablais, Giudici,
e Ilse Freiwirth, Cancelliere,
Tenuto conto:
dei ricorsi (nn. 36551/22, 36926/22 e 37907/22 ) contro la Repubblica italiana, presentati alla Corte ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ("la Convenzione") da tre cittadini italiani ("i ricorrenti"), nelle diverse date indicate nella tabella allegata;
della decisione di dare comunicazione delle domande al Governo italiano (“il Governo”);
delle osservazioni presentate dall'associazione Unione delle Camere Penali Italiane, invitata dal Presidente della Sezione ad intervenire;
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 10 giugno e l'8 luglio 2025,
pronuncia la seguente
Sentenza
adottata in tale ultima data:
INTRODUZIONE
Il caso riguarda la “ confisca di prevenzione ” dei beni dei ricorrenti, disposta dai tribunali nazionali competenti ai sensi dell’articolo 24 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 ( Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione – “Decreto n. 159/2011”), in conseguenza della condizione del primo ricorrente di persona che aveva rappresentato un pericolo per la società per un certo periodo di tempo e del fatto che i beni confiscati erano considerati proventi di attività illecite commesse o presumibilmente commesse durante tale periodo. I ricorrenti lamentavano che le decisioni dei tribunali nazionali non fossero state conformi alle condizioni stabilite dal diritto e dalla giurisprudenza nazionali per l’imposizione della misura impugnata.
I FATTI
I fatti del caso possono essere riassunti come segue.
Il 13 dicembre 2018 il questore di Palermo ha presentato ricorso al Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, chiedendo che venisse dichiarato che il signor Giuseppe Isaia, primo ricorrente, era un individuo che costituiva una pericolosità generica ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettere a) e b), del decreto n. 159/2011, in quanto, in particolare, un individuo che, sulla base di elementi di fatto, poteva essere considerato un "delinquente abituale" e un individuo che " viveva abitualmente, anche in parte, con i proventi di reato" (vedere paragrafo 20 infra). Il questore ha inoltre chiesto al tribunale competente di disporre il sequestro e la successiva confisca ai sensi dell'articolo 24 del decreto n. 159/2011 (vedi paragrafo 20 infra) di diversi beni direttamente e indirettamente nella disponibilità della persona in questione ( proposto , cioè la persona direttamente interessata da una richiesta di applicazione di una misura di prevenzione), in particolare, beni di proprietà del primo ricorrente, di sua moglie (il secondo ricorrente) e di suo figlio (il terzo ricorrente).
Il 20 dicembre 2018 il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, ha disposto il sequestro dei beni indicati nel ricorso presentato dal questore : a) un appartamento all'interno di un'abitazione di tipo popolare , acquistato ufficialmente dal secondo ricorrente il 1° giugno 2010; b) un terreno e un edificio residenziale, acquistati ufficialmente dal terzo ricorrente il 21 novembre 2016; c) un magazzino, acquistato ufficialmente dal secondo ricorrente il 10 giugno 2016; d) un'autovettura, acquistata ufficialmente dal terzo ricorrente il 5 marzo 2018; e) i saldi disponibili dei conti correnti bancari intestati ai tre ricorrenti, aperti dal primo ricorrente nel 1994 e nel 2014, dal secondo ricorrente nel 1999 e nel 2016 e dal terzo ricorrente nel 2016.
Il 4 agosto 2020 il Tribunale distrettuale di Palermo ha accolto la richiesta del questore e ha ordinato la confisca dei beni sequestrati. Il tribunale ha ritenuto che il primo ricorrente fosse un individuo che rappresentava un pericolo per la società ai sensi dell'articolo 1, comma 1 , lettera b), del decreto n. 159/2011, poiché aveva "vissuto abitualmente, anche in parte, con proventi di reato" nel periodo compreso tra il 1980 e il 2008. Ha osservato quanto segue:
“Tale valutazione si fonda sul dato indiscutibile e incontestato, riferito dallo stesso proposto , delle numerose condanne definitive pronunciate dalla Corte d’Assise a carico [del primo ricorrente] per numerosi reati contro il patrimonio ed in particolare per diverse rapine o tentate rapine nel 1980, 1993, 1994, 1995 e nuovamente nel 1998, furto aggravato nel 1980 e 2008, estorsione commessa nel 1987, associazione a delinquere finalizzata alla rapina tra il 1990 e il 1995 e ricettazione nel 1995, e quindi commessi senza sostanziale interruzione (tenuto conto dei periodi di detenzione del ricorrente [dal 1999 al 2006]) nell’arco di diversi decenni.
Pertanto, considerata la reiterata partecipazione alla condotta criminosa sopra indicata, che riguarda numerosi e gravi reati contro il patrimonio, commessi anche in associazione con altri, devono ritenersi sussistenti nel caso di specie i presupposti per classificare il proposto nella predetta categoria di pericolosità, nonché, quindi, i presupposti soggettivi che giustificano la confisca richiesta.”
Dal casellario giudiziale del ricorrente emerge che nella maggior parte dei casi le autorità nazionali hanno confiscato beni non specificati al momento della condanna. Quanto all'estorsione commessa nel 1987, la Corte d'Appello di Palermo ha applicato circostanze attenuanti, definite dall'articolo 62, comma 6, del Codice Penale come "la riparazione integrale del danno prima del processo, mediante indennizzo o, ove possibile, mediante restituzione; [e] l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato ...". Inoltre, dal casellario giudiziale risulta che i furti commessi nel 1988 e nel 2008 e le rapine commesse nel 1980, 1994 e 1995 erano reati tentati.
Quanto al nesso tra i beni confiscati e le attività illecite, il Tribunale di Palermo ha esaminato solo il rapporto sproporzionato tra i beni posseduti e l'ammontare dei redditi percepiti, stabilendo quanto segue :
“L'ordine di sequestro si basava su indagini finanziarie svolte [nei confronti del primo ricorrente], che hanno rivelato che il reddito legittimo suo e della sua famiglia era completamente sproporzionato rispetto al valore dei beni acquistati.
[L]'esperto ha ricostruito i redditi percepiti dal proposto e dagli altri componenti del nucleo familiare sopra menzionato a partire dal 1990 ... Inoltre, l'esperto ha tenuto conto delle spese sostenute per gli acquisti e gli investimenti effettuati, nonché delle spese domestiche del nucleo familiare sopra menzionato, quantificandole sulla base delle tabelle predisposte dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT), tenendo conto per ciascun anno della sua effettiva composizione numerica, variata nel corso degli anni in esame, ed escludendo il costo della locazione di un immobile per gli anni in cui il nucleo familiare in questione risulta aver abitato in un immobile di sua proprietà ...
Tuttavia, tale dichiarazione contiene errori significativi commessi dall'esperto nella registrazione di alcune voci di entrata e di uscita, di cui occorre tenere conto...
Per quanto riguarda l'accuratezza dei dati statistici elaborati dall'ISTAT, basti osservare, in termini generali, che l'esigenza di utilizzare dati statistici per la determinazione delle spese delle famiglie deriva dall'impossibilità pratica di ricostruire analiticamente tali dati, a causa della mancanza di informazioni affidabili al riguardo. Ovviamente, sebbene i dati statistici non possano fornire una determinazione esatta delle spese effettivamente sostenute da una determinata famiglia, essi forniscono un parametro di riferimento che consente di valutare con una certa accuratezza la correlazione tra reddito accertato e spese necessariamente sostenute per il mantenimento della famiglia.
In altri termini, i dati statistici appaiono rappresentativi solo se considerati nella loro interezza e intrinseca generalità, senza essere correlati alle specifiche abitudini di vita del nucleo familiare in esame, poiché ciò richiederebbe l'abbandono del metodo statistico e il ricorso a una ricostruzione analitica delle spese familiari, cosa che nel caso di specie risulta impossibile per la mancanza di dati di riferimento attendibili e per il fatto che le abitudini di vita del nucleo familiare oggetto di indagine non sono note né comprovate, e verosimilmente si sono evolute nel lungo periodo considerato (dal 1990 al 2017)”.
La Corte ha inoltre osservato, sulla base della perizia, che il reddito legittimo dei ricorrenti era insufficiente a giustificare i beni di loro proprietà, ad esempio l'acquisto, nel 2010, 2016 e 2018, dei beni sequestrati (vedere paragrafo 6 sopra); essi non potevano inoltre giustificare la provenienza delle somme di denaro depositate sui loro conti bancari.
Ha inoltre rilevato che il primo ricorrente aveva accumulato ricchezza vendendo immobili acquisiti con mezzi illeciti e durante il periodo in cui aveva rappresentato un pericolo per la società. In particolare, il Tribunale distrettuale di Palermo ha osservato che il primo ricorrente aveva acquistato un immobile nel 1994, quando non aveva percepito alcun reddito lecito e durante un periodo in cui aveva commesso diversi reati. Sebbene i ricorrenti avessero sostenuto che tale acquisto fosse stato effettuato con una somma di denaro donata dal nonno del secondo ricorrente, il tribunale ha ritenuto che non fosse credibile che tale somma di denaro fosse stata utilizzata per acquistare un immobile e non per soddisfare i bisogni primari della famiglia, data l'assenza di altri redditi leciti. Pertanto, secondo il tribunale, tale immobile era stato acquistato con i proventi illeciti dei reati commessi dal primo ricorrente in quel periodo. Il tribunale, tuttavia, senza fornire alcun dettaglio, ha inoltre osservato che l'immobile era stato successivamente venduto e che il ricavato della vendita era stato utilizzato più volte per acquistare altri immobili. Pertanto, secondo la Corte, tutti i beni successivamente acquisiti dalla famiglia dei ricorrenti erano stati acquistati reinvestendo i proventi illeciti dei crimini commessi dal primo ricorrente ed erano stati utilizzati nel 1994 per acquistare i beni in questione.
Il 9 settembre 2020 i ricorrenti hanno proposto ricorso contro tale sentenza dinanzi alla Corte d'Appello di Palermo. Hanno sostenuto che il primo ricorrente non poteva essere considerato un individuo che rappresentava un pericolo per la società nel periodo compreso tra il 1998 e il 2008, poiché i reati da lui commessi erano avvenuti tra il 1980 e il 1998 e nel 2008 aveva commesso solo il reato di tentato furto. I ricorrenti hanno inoltre contestato la valutazione del tribunale di primo grado secondo cui non avevano avuto sufficienti redditi legittimi tali da giustificare l'acquisto dei beni confiscati.
Il 7 maggio 2021 la Corte d'Appello di Palermo ha respinto il ricorso dei ricorrenti. La Corte ha confermato la conclusione secondo cui il primo ricorrente doveva essere considerato un individuo che costituiva un pericolo per la società nel periodo compreso tra il 1980 e il 2008. Inoltre, la Corte d'Appello ha stabilito che l'origine illecita dei beni confiscati poteva essere presunta dal solo rapporto sproporzionato tra i beni posseduti e il reddito:
“Accertata la pericolosità [del primo ricorrente], la Corte osserva che, in materia di confisca preventiva, un rapporto sproporzionato [tra beni posseduti e redditi] costituisce indizio dell'illecita provenienza dei beni; il legislatore ha infatti indicato, a titolo esemplificativo, come possibile indizio – forse addirittura unico – dell'illecita provenienza dei beni, il rapporto sproporzionato tra l'impiego dei capitali e l'ammontare dei redditi noti, elemento dal quale – una volta provato dal pubblico ministero – è ragionevole desumere redditi ignoti, che, in circostanze normali, sono frutto di attività illecite produttrici di reddito, come corroborato dall'accertamento che il proposto ha svolto tali attività...”
Secondo la Corte d'appello, una volta stabilita tale presunzione,
“... solo la prova positiva della legittima provenienza del bene, sotto il profilo economico e non solo sotto il profilo giuridico e formale, costituisce valida giustificazione di un rapporto reddito/patrimonio oggettivamente sproporzionato..., l'onere della prova circa la legittima provenienza del bene non può essere soddisfatto con la mera indicazione dell'esistenza di fondi sufficienti al suo acquisto, ma devono essere indicati gli elementi di fatto dai quali il giudice possa desumere che il bene non è stato acquistato con proventi di attività illecite o con spese sproporzionate rispetto al reddito del soggetto...”
Per quanto riguarda i beni formalmente posseduti da familiari o conviventi, la Corte d'appello ha ritenuto che
“... la valutazione giudiziale della disponibilità, in capo al proposto , di beni formalmente intestati a terzi opera diversamente per il coniuge, i figli e i conviventi del convenuto rispetto a tutte le altre persone fisiche e giuridiche, in quanto, per i primi [prossimi familiari], tale disponibilità è legittimamente presunta senza necessità di specifici accertamenti, ove e a condizione che il terzo proprietario non disponga di risorse economiche proprie, mentre, per i secondi [terzi estranei], deve essere acquisita specifica prova circa la natura fittizia dell'iscrizione ...”
La Corte d'Appello ha osservato che i beni confiscati erano stati acquistati durante il periodo in questione, ovvero utilizzando risorse economiche derivanti dalla vendita di beni acquisiti in tale periodo. Ha inoltre osservato che era stato accertato un rapporto sproporzionato tra i beni posseduti e il reddito familiare e che i beni appartenevano a familiari che non disponevano di risorse economiche sufficienti a giustificarne l'acquisto. Pertanto, la Corte d'Appello, al pari del giudice di primo grado, ha concluso che i beni erano stati acquistati con mezzi illeciti (cfr. paragrafo 11 sopra).
Il 19 maggio 2021 i ricorrenti hanno presentato ricorso per cassazione. Hanno lamentato, in particolare, l'assenza di una correlazione temporale tra il periodo in cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società e il momento in cui i beni confiscati erano stati acquistati (cfr. paragrafi 25-30 infra). Hanno inoltre sostenuto che la sentenza di appello non era stata sufficientemente motivata, in quanto il tribunale nazionale non aveva dimostrato su quali basi si potesse sostenere che i beni acquisiti dopo il periodo in cui il primo ricorrente aveva commesso reati penali potessero essere considerati proventi di attività illecite.
Il 14 dicembre 2021 , l'Avvocato Generale dinanzi alla Corte di Cassazione ha chiesto a quest'ultima di accogliere il ricorso per cassazione dei ricorrenti. Basandosi sulla pertinente giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha osservato che, secondo il diritto interno, i beni acquisiti al di fuori del periodo in cui il destinatario del provvedimento aveva commesso reati potevano essere confiscati solo in presenza di molteplici elementi di fatto che dimostrassero che tali beni erano stati acquistati utilizzando risorse economiche accumulate durante tale periodo. Secondo l'Avvocato Generale, tuttavia, i giudici nazionali si erano limitati a basarsi sulla mancanza di proporzionalità tra il valore dei beni confiscati e il reddito legittimo dei ricorrenti, in violazione dei limiti stabiliti dal diritto interno. Di conseguenza, l'Avvocato Generale ha concluso che il provvedimento era stato disposto in violazione del principio di correlazione temporale tra il periodo in cui la persona in questione aveva commesso reati e l'acquisto dei beni confiscati.
Con sentenza n. 13458 del 7 aprile 2022, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso in cassazione dei ricorrenti. Ha ammesso che, in linea di principio, solo i beni acquistati durante il periodo in cui la persona in questione aveva commesso reati potevano essere sottoposti alla misura in questione. Tuttavia, ha anche osservato che la giurisprudenza interna pertinente aveva riconosciuto la possibilità di confiscare i beni acquisiti dopo tale periodo, a condizione che sussistessero sufficienti elementi di fatto idonei a dimostrare che erano stati acquisiti utilizzando risorse economiche accumulate durante il periodo in questione. Nelle specifiche circostanze del caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che i giudici di grado inferiore avessero dimostrato che i beni confiscati erano stati acquistati utilizzando risorse economiche accumulate durante il periodo in cui il primo ricorrente aveva rappresentato un pericolo per la società a causa della commissione di diversi reati (cfr. paragrafo 11 supra). In particolare, ha affermato quanto segue:
“... il tribunale regionale, circoscritta la portata temporale della presunzione di pericolosità sociale e valutata la complessiva disponibilità dei beni acquisiti dalla famiglia ( proposto e prossimi congiunti), nel disporre la confisca anche dei beni acquisiti fuori dal termine previsto (seppure di modesta entità), ha evidenziato non solo l'effettiva discrepanza tra il valore dei beni e il reddito complessivo dell'intero nucleo familiare, ma anche la provenienza (illegale) dei fondi utilizzati per l'acquisto dei beni oggetto del provvedimento di confisca, acquisiti mediante la vendita di altri beni, a loro volta frutto del riciclaggio di proventi illeciti di attività criminosa. Nel contempo, ha recepito le specifiche argomentazioni svolte dalla difesa alla luce di una ragionevole ricostruzione del patrimonio familiare, evidenziando un saldo negativo in progressivo aumento, che, di per sé, giustificava sufficientemente la provenienza illecita dei fondi.
In tale contesto, pertanto, risultano irrilevanti anche i dati forniti dai ricorrenti, i quali, nel tentativo di giustificare l'origine dei beni sottoposti a confisca, hanno fornito giustificazioni per ogni singola operazione : del tutto irrilevanti i dati settoriali relativi all'acquisto di un singolo bene, atteso che il confronto tra risorse legittimamente disponibili e singoli acquisti non può essere effettuato in modo isolato, svincolato dal contesto complessivo delle operazioni finanziarie e della movimentazione dei beni effettuate nello stesso, limitato arco temporale, ma deve essere effettuato alla luce di una complessiva considerazione della movimentazione dei beni nel periodo in questione e della destinazione complessiva di tutte le risorse economiche disponibili.
QUADRO GIURIDICO E PRASSI RILEVANTI
DIRITTO INTERNO RILEVANTE
Le disposizioni interne rilevanti sono contenute nel decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 ( Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione). In particolare, la misura della “confisca preventiva”, prevista dall’articolo 24, può essere imposta ai soggetti individuati attraverso l’interazione degli articoli 1, 4 e 16 del decreto. Tali disposizioni recitano quanto segue:
Articolo 1
Destinatari
“1. Le misure previste dal presente provvedimento possono essere applicate:
a) individui che, sulla base di prove fattuali, possono essere considerati delinquenti abituali;
b) individui che, in base al loro comportamento e al loro stile di vita e sulla base di prove fattuali, possono essere considerati come se vivessero abitualmente, anche in parte, dei proventi di reato; ...”
Articolo 4
Destinatari
“1. Le misure previste dal presente provvedimento possono essere applicate:
... c) le persone indicate nell'articolo 1; ...“
Articolo 16
Destinatari
“1. Le disposizioni del presente Capo [relative alle misure di sequestro preventivo e di confisca] possono essere applicate a:
a) le persone indicate nell'articolo 4; ...”
b)
Articolo 24
Confisca
“1. Il giudice dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è stato proposto il procedimento non può giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica , è proprietaria o ha nella sua disponibilità, a qualsiasi titolo, per un valore sproporzionato al reddito, dichiarato ai fini delle imposte sui redditi, o alla sua attività economica, nonché dei beni che costituiscono il frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego. In ogni caso, la persona interessata non può giustificare la legittima provenienza dei beni allegando che il denaro utilizzato per acquistarli è frutto o reimpiego di evasione fiscale. ...”
Gli individui che rientrano in una delle categorie elencate nell'articolo 1 del decreto legislativo n. 159 del 2011 sono considerati pericolosità generica ( vedi De Tommaso c. Italia [GC], n. 43395/09 , § 43, 23 febbraio 2017, che fa riferimento alla possibilità, ai sensi della legge n. 1423 del 1956, di imporre misure di prevenzione agli individui in determinati casi di "pericolosità ordinaria"; le parti rilevanti di tale legge sono state incorporate, senza modifiche, nell'articolo 1 del decreto legislativo n. 159 del 2011).
L’articolo 26 disciplina la questione dell’accertamento della “fittizia” , consentendo l’applicazione di misure di confisca preventiva nei confronti di terzi, non considerati pericolosi per la collettività, titolari a tutti gli effetti di beni considerati “nella disponibilità” del soggetto in questione, ovvero del soggetto direttamente interessato dalla richiesta di applicazione di una misura di prevenzione. Esso recita quanto segue:
Articolo 26
Proprietà fittizia
“Qualora il tribunale competente accerti che determinati beni sono stati fittiziamente intestati a terzi o trasferiti a terzi, dichiara nel decreto che dispone la confisca la nullità degli atti di disposizione in questione.
Ai fini del paragrafo 1, si presumono fittizie, fino a prova contraria, le seguenti situazioni:
a) i trasferimenti e le trascrizioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni precedenti la proposta di applicazione della misura di prevenzione, nei confronti di ascendenti, discendenti, coniugi o partner di lungo corso [della persona nei confronti della quale è richiesta la misura], nonché dei parenti fino al sesto grado e degli affini fino al quarto grado;
b) i trasferimenti e le iscrizioni, a titolo gratuito o oneroso, effettuati nei due anni precedenti la proposta di applicazione della misura di prevenzione.”
GIURISPRUDENZA NAZIONALE
La natura e la gravità dei crimini che giustificano la dichiarazione di una persona come pericolosa per la società.
Con la sentenza n. 31209 del 17 luglio 2015, la Corte di Cassazione ha chiarito gli elementi che dovevano essere valutati per concludere che un individuo potesse essere qualificato come colui che “per il suo comportamento e stile di vita e sulla base di elementi di fatto, può essere considerato come vivesse abitualmente, anche in parte, dei proventi di reato”, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera b), del decreto n. 159/2011. La Corte di Cassazione ha affermato quanto segue:
“Tale qualificazione, che deve essere effettuata sulla base di elementi fattuali appropriati (incluso il riferimento alla condotta e al tenore di vita), richiede che siano soddisfatte le seguenti condizioni:
a) la commissione di attività criminali (si tratta di una condizione inequivocabile) in modo non occasionale e per un periodo di tempo significativo durante la vita della persona contro la quale è stato avviato il procedimento;
b) la commissione di attività criminali che, oltre ad avere la caratteristica sopra individuata, producono un reddito illecito (il profitto);
c) la destinazione almeno parziale di tale utile al soddisfacimento dei bisogni della persona nei confronti della quale è stato avviato il procedimento e della sua famiglia.
L’ attività contra legem (sia essa accertata in un procedimento penale correlato o autonomamente accertata nel procedimento avente ad oggetto una misura di prevenzione) deve pertanto qualificarsi come reato – ricorrente – produttivo di reddito.”
Nella sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, la Corte Costituzionale ha rilevato che, alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte di Cassazione, la qualificazione di un soggetto come “che vive abitualmente, anche in parte, dei proventi di reato” richiedeva una triplice valutazione. In particolare, la Corte Costituzionale ha affermato quanto segue :
“Le 'categorie di reato' che possono fungere da presupposti per la misura sono in effetti suscettibili di essere accertate specificamente nel caso di specie all'esame del tribunale alla luce del triplice presupposto – che deve essere provato sulla base di precise 'constatazioni di fatto' che il tribunale deve comprovare con precisione nella sua motivazione (articolo 13 § 2 Cost.) – che il caso deve riguardare: (a) reati commessi abitualmente (e quindi per un periodo di tempo significativo) dall'individuo, che (b) hanno effettivamente dato luogo a un profitto per sé o per un'altra persona, che (c) a loro volta rappresentano – o hanno rappresentato in un particolare momento nel tempo – l'unico reddito dell'individuo, o almeno una parte significativa di tale reddito.”
La correlazione temporale tra il periodo in cui l'individuo in questione ha rappresentato un pericolo per la società e l'acquisto dei beni da confiscare
Nella sentenza n. 4880 del 2 febbraio 2015, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno esplicitato il principio, già desumibile dalla giurisprudenza preesistente, della necessità di una correlazione temporale tra il periodo in cui il destinatario del provvedimento di confisca preventiva è risultato socialmente pericoloso e l'acquisto dei beni da confiscare, considerati “pericolosi” in quanto acquisiti da un soggetto che, al momento dell'acquisizione, presentava una pericolosità sociale per la presunta commissione di reati. In particolare, la Corte di Cassazione ha affermato quanto segue:
“Così, nel caso di beni illecitamente acquisiti, il carattere di pericolosità è legato non tanto alle modalità di acquisizione o alle loro particolari caratteristiche strutturali, quanto piuttosto al carattere soggettivo del soggetto che li ha acquisiti. Ciò significa che la stessa pericolosità dell'acquirente si riverbera sui beni acquistati, ma ancora una volta non in modo statico, vale a dire per il fatto stesso del loro carattere soggettivo, bensì in una proiezione dinamica, fondata sul principio della pericolosità oggettiva del mantenimento dei beni illecitamente acquisiti in possesso di coloro che si ritengono appartenere – o siano appartenuti – a una delle categorie soggettive previste dal legislatore.
La suddetta riverberazione finisce, dunque, per "oggettivarsi", traducendosi in un attributo oggettivo o in un "carattere" speciale del bene, idoneo ad incidere sulla sua condizione giuridica. Ciò è evidente in caso di morte del proprietario, già qualificato come pericoloso, o di trasferimento formale o di fittizia , atteso che il bene può, anche in possesso dell'avente diritto, sia esso universale o particolare, essere sottoposto a sequestro giudiziale [ossia, confiscato]. È evidente, infatti, che, in tali circostanze, la confisca in danno degli eredi o dei proprietari apparenti non può più essere giustificata dal rapporto di pertinenza tra la res e il soggetto proposto , ma solo in ragione del "carattere" oggettivo di quel bene, essendo stato, all'epoca dei fatti, acquisito da un soggetto socialmente pericoloso e, come tale, presumibilmente frutto di un metodo di acquisizione illecito. E proprio perché è diventato "oggettivamente pericoloso" (nel senso sopra menzionato), per lo stesso motivo deve essere rimosso dal sistema di circolazione legale.
Occorre, a questo punto, affrontare la questione correlata della necessità o meno di una delimitazione cronologica, cioè se debba sussistere una correlazione temporale tra l'acquisizione del patrimonio e il manifestarsi del pericolo per la collettività [posto dal soggetto interessato].
A tal proposito, con riferimento alla pericolosità ordinaria, occorre stabilire il principio giuridico secondo cui sono confiscabili solo i beni acquisiti nel periodo di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale del soggetto, indipendentemente dal fatto che la pericolosità perduri al momento della presentazione della proposta di applicazione del provvedimento di confisca.
Tale conclusione discende dalla valutazione della stessa ragione giustificativa del provvedimento di confisca preventiva, vale a dire la ragionevole presunzione che i beni siano stati acquisiti con il ricavato di attività illecite (restando, in tal modo, affetti da una sorta di illiceità genetica o, come è stato sostenuto in dottrina, da una 'patologia ontologica') ed è, pertanto, pienamente coerente con la reiterata natura preventiva del provvedimento in esame.
Al contrario, se fosse possibile confiscare indiscriminatamente i beni del soggetto in questione, indipendentemente dall'esistenza di un qualsiasi "rapporto di pertinenza" o di una correlazione temporale con la pericolosità sociale del soggetto, la misura finirebbe inevitabilmente per assumere i connotati di una vera e propria pena. Una simile misura sarebbe pertanto difficilmente compatibile con i parametri costituzionali in materia di tutela dell'iniziativa economica e della proprietà privata, sanciti dagli articoli 41 e 42 della Costituzione italiana, nonché con i pertinenti principi convenzionali (in particolare, con i principi di cui all'articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione). Alla luce di tali principi, la confisca dei beni, ritenuti di provenienza illecita, può essere considerata legittima, in quanto espressione del corretto esercizio del potere discrezionale del legislatore, solo quando risponde all'interesse generale di sottrarre alla circolazione economica i beni illecitamente acquisiti. D'altra parte, è ovvio che la funzione sociale della proprietà privata può essere assolta solo alla condizione immutabile che la sua acquisizione sia conforme alle regole dell'ordinamento giuridico.
Pertanto, l' acquisizione contra legem di beni non può essere considerata compatibile con tale funzione, cosicché un'acquisizione illegittima non può mai essere invocata come argomento contro lo Stato...
Del resto, non vi è dubbio che l'individuazione di un preciso contesto cronologico entro il quale può essere esercitato il potere di confisca rende molto più agevole l'esercizio del diritto di difesa, oltre a soddisfare una imprescindibile garanzia generale. ...”
Nella sentenza n. 31634 del 27 giugno 2017, la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha chiarito che all'interessato era consentito fornire prove che dimostrassero che i beni acquisiti nel periodo in cui si presumeva che egli avesse commesso reati erano stati effettivamente acquistati utilizzando risorse economiche anteriori alla commissione di attività illecite e, pertanto, non potevano essere confiscati.
Nella sentenza n. 13375 del 22 marzo 2018, la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha chiarito che i giudici nazionali competenti non potevano sostituire la valutazione della sussistenza di un pericolo per la società da parte del soggetto con la valutazione della sproporzione tra il reddito legittimo del soggetto e il patrimonio acquisito. Ciò significa che i beni acquisiti al di fuori del periodo in cui il soggetto era stato qualificato come pericoloso per la società non potevano essere confiscati, indipendentemente dal fatto che il loro valore fosse sproporzionato rispetto al reddito legittimo del soggetto.
Con sentenza n. 14165 del 27 marzo 2018, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha confermato la rilevanza del principio di correlazione temporale tra il periodo in cui la persona in questione ha costituito un pericolo per la collettività e l'acquisizione dei beni da confiscare (cfr. anche Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, sentenza n. 30974 del 9 luglio 2018). La Corte ha affermato quanto segue:
“... questa Corte ha avuto modo di affermare il principio secondo cui la pericolosità sociale del soggetto, oltre a costituire condizione essenziale della misura di confisca preventiva, costituisce anche misura temporale del suo ambito di applicazione, con la conseguenza che, con riferimento alla c.d. pericolosità ordinaria, possono essere confiscati solo i beni acquisiti nel periodo di tempo in cui il soggetto è stato qualificato come pericoloso per la collettività; con riferimento alla c.d. pericolosità 'specifica', il giudice competente deve accertare se questa riguardi, come avviene ordinariamente, l'intero percorso esistenziale del soggetto in questione, ovvero se sia individuabile una data di inizio e di fine del periodo in cui egli ha costituito un pericolo per la collettività, al fine di stabilire se possano essere confiscati tutti i beni a lui riconducibili, ovvero solo quelli acquisiti nel predetto periodo...”
La Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito che, nei casi di persone che costituiscono una pericolosità qualificata , era ragionevole presumere che i beni acquisiti immediatamente dopo il periodo in cui la persona in questione aveva costituito una pericolosità per la società fossero stati effettivamente acquisiti con mezzi illeciti accumulati in tale periodo, purché sussistessero sufficienti elementi di fatto che giustificassero tale conclusione (cfr. anche Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n. 1543 del 14 gennaio 2021). In particolare, la Corte ha affermato quanto segue:
“Qualora le acquisizioni siano avvenute nel periodo immediatamente successivo a quello in relazione al quale è stata accertata la pericolosità 'specifica' del soggetto e il giudice competente dimostri la sussistenza di una pluralità di elementi di fatto che indichino chiaramente che tali acquisizioni derivano direttamente da mezzi accumulati nel periodo dell'attività criminosa, il provvedimento di confisca può legittimamente trovare applicazione, in quanto sussista una correlazione logica tra gli elementi di fatto, la pericolosità del soggetto destinatario [del provvedimento] e l'incremento patrimoniale 'ingiustificato' che ha generato il bene oggetto di confisca.”
Quest'ultimo principio, elaborato in relazione ai casi di soggetti che costituivano un pericolo "specifico" per la collettività, è stato esteso ai casi di soggetti che costituivano un pericolo "ordinario" per la collettività nella sentenza n. 12329 del 16 aprile 2020 della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione. La Corte ha sostenuto che il principio di correlazione temporale, pur essendo essenziale, dovesse essere letto alla luce di un "criterio operativo che consenta di salvaguardare la garanzia in esso sancita senza esporla a inaccettabili interpretazioni formalistiche". Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha ritenuto che i beni acquisiti successivamente al periodo in cui il soggetto in questione aveva costituito un pericolo per la collettività potessero essere sottoposti a misure di confisca, purché fossero rispettate specifiche condizioni e garanzie. In particolare, la Corte ha affermato quanto segue:
“È necessario, per quanto riguarda i beni acquisiti al di fuori del periodo in cui la persona in questione ha rappresentato un pericolo per la società, individuare, sulla base di un ragionamento appropriato e idoneo a dimostrarne la rilevanza, gli elementi di fatto idonei a dimostrare che tali beni derivano direttamente da una ricchezza illecita precedentemente accumulata [durante il periodo in cui la persona ha rappresentato un pericolo per la società].”
Tale principio è stato ulteriormente chiarito nella sentenza n. 36421 del 7 ottobre 2021 della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, nella quale è stato evidenziato che tali elementi di fatto dovevano essere dimostrati in modo tanto più rigoroso e inequivocabile quanto maggiore era il lasso di tempo intercorso tra il periodo in cui la persona in questione aveva costituito un pericolo per la collettività e l'acquisizione dei beni da confiscare. In particolare, la Corte ha affermato quanto segue:
“Quanto alle misure di confisca preventiva, è legittimo disporre la misura con riguardo ai beni acquisiti nel periodo successivo a quello in cui la persona in questione ha costituito un pericolo per la società, purché il giudice competente fornisca la prova dell’esistenza di una pluralità di elementi di fatto idonei a dimostrare che le acquisizioni di beni derivano dal patrimonio accumulato nel periodo in cui sono state commesse le attività criminose (…)
La nozione di [bene derivante da ricchezza accumulata nel periodo in cui un soggetto ha costituito un pericolo per la collettività] e l'onere probatorio ad essa sotteso mutano a seconda del lasso di tempo intercorso tra la data di acquisizione [del bene] e la data conclusiva del periodo in cui il soggetto in questione ha costituito un pericolo per la collettività: il valore dei molteplici 'elementi fattuali' deve infatti assumere un rilievo tanto più rilevante quanto maggiore è il lasso di tempo intercorso tra tali momenti. E così, rispetto all'acquisto di un bene effettuato immediatamente dopo la delimitazione temporale del pericolo per la collettività, la possibilità di ritenere, in assenza di concreti elementi di opposto valore dimostrativo, che il bene stesso sia stato acquisito con il diretto reimpiego dell'illecita accumulazione di precedente ricchezza, è supportata da immediata ragionevolezza persuasiva. Al contrario, la possibilità di confiscare un bene acquistato dopo un lasso di tempo, anche considerevole, dal momento in cui il soggetto in questione non costituisce più un pericolo per la collettività, è subordinata alla presenza di specifici elementi che consentano di ricondurre in modo rigoroso e inequivocabile l’acquisto in questione al reinvestimento diretto di capitali precedentemente accumulati in modo illecito”.
Quanto alla ripartizione dell'onere della prova, nella sentenza n. 4880 del 2 febbraio 2015 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato quanto segue:
“... resta a carico dell'accusa l'onere della prova in ordine all'eventuale sproporzione tra i beni posseduti e i redditi, nonché alla loro provenienza illecita, dimostrabile anche sulla base di presunzioni. Tuttavia, l'interessato ha la possibilità di provare il contrario fornendo elementi idonei a inficiare tali presunzioni, così da dimostrare la provenienza lecita dei beni.”
Nella sentenza n. 18569 del 3 maggio 2019, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha chiarito l'onere probatorio a carico dei terzi i cui beni dovevano essere confiscati (cfr. anche Corte di Cassazione, Quinta Sezione Penale, sentenza n. 8984 del 19 gennaio 2022):
“Il terzo che impugna il provvedimento di confisca, pur non avendo alcun onere probatorio, incombe tuttavia su di lui un onere della prova in relazione a un’affermazione, che consiste appunto nel confutare la tesi del pubblico ministero (secondo cui egli sarebbe un mero proprietario formale) e nell’indicare elementi di fatto che dimostrino che il bene è di sua esclusiva proprietà e nella sua esclusiva disponibilità. È quindi evidente che, per il terzo, il procedimento ruoterà solo ed esclusivamente attorno al suddetto onere, … tutte quelle eccezioni che riguardano esclusivamente la persona in questione (vale a dire, il valore sproporzionato del bene confiscato rispetto al reddito dichiarato; la legittima provenienza), e che solo la persona in questione potrebbe avere interesse a far valere, essendo irrilevanti per il terzo.”
La Corte ha già riconosciuto la compatibilità, in linea di principio, con la Convenzione delle procedure di confisca dei beni in assenza di una condanna che stabilisca la colpevolezza degli imputati, quando tali beni erano collegati alla presunta commissione di vari reati gravi che comportavano un arricchimento senza causa . In quanto tale, ha ritenuto che i ricorsi erano manifestamente infondati o che non vi era stata alcuna violazione nei casi riguardanti reati di mafia
La Corte ha espresso serie preoccupazioni in merito alla legislazione nazionale che prevedeva che le procedure per l'imposizione di misure simili potessero essere attivate non solo da reati particolarmente gravi come quelli legati alla criminalità organizzata, al traffico di droga, alla corruzione nel servizio pubblico o al riciclaggio di denaro, o altri reati che si potesse presumere generassero sempre reddito, ma anche da una serie di altri reati, oltre ad alcuni illeciti amministrativi (vedere, in particolare, Yordanov e altri , § 115, e Todorov e altri , § 200, entrambi citati sopra).
Con specifico riguardo alla misura della “confisca preventiva” prevista dall’ordinamento italiano, nella sentenza Garofalo e altri (citata sopra) la Corte ha ritenuto che essa non potesse essere considerata una pena, ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, in ragione di una serie di limitazioni previste dal diritto interno e dalla giurisprudenza applicabili e, in particolare, del fatto che la confisca in questione poteva essere applicata esclusivamente a beni che si presumevano provenissero da attività illecite, a causa della mancanza di prove che ne dimostrassero l’origine lecita (ibid., § 129); che la misura poteva essere giustificata solo nella misura in cui i reati penali presumibilmente commessi dall’individuo interessato costituissero fonte di profitti illeciti, in un importo ragionevolmente congruo con il valore dei beni da confiscare (ibid., § 130); che la misura poteva essere applicata solo in relazione ai beni acquisiti dall'individuo interessato durante il periodo in cui questi aveva presumibilmente commesso reati penali che comportavano profitti illeciti, dimostrando così che tale misura mirava a prevenire l'arricchimento ingiusto sulla base della commissione di reati penali (ibid., § 131); e che doveva essere applicata solo in relazione ai profitti illeciti derivanti dai reati presumibilmente commessi dall'individuo interessato, senza estendersi al prodotto del reato (ibid., § 132).
In terzo luogo , per quanto riguarda le garanzie procedurali e, in particolare, il livello di prova imposto alle autorità nazionali, ogniqualvolta un ordine di confisca fosse il risultato di un procedimento relativo ai proventi di reato derivanti da reati gravi, la Corte non ha richiesto la prova "oltre ogni ragionevole dubbio" dell'origine illecita dei beni in tale procedimento. Invece, la prova basata su una ponderazione delle probabilità o su un'elevata probabilità di origine illecita, combinata con l'incapacità del proprietario di dimostrare il contrario, è stata ritenuta sufficiente ai fini del test di proporzionalità ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 (si vedano Silickiene, §§ 60-70; Balsamo , § 91; Telbis e Viziteu , § 68; e Zaghini , § 62, tutti citati sopra).
Tuttavia, la Corte ha chiarito che l'ordinamento giuridico interno dovrebbe limitare il periodo di tempo in cui i beni rilevanti possono essere confiscati, al fine di non rendere eccessivamente oneroso per l'individuo interessato fornire la prova del reddito legittimo o della provenienza legale dei beni acquisiti molti anni prima dell'apertura del procedimento di confisca (vedere Todorov e altri , § 201-02 , e Yordanov e altri , §§ 116-17, entrambi citati sopra).
CRITICA
Prima di passare al deplorevole compito di dimostrare che, oltre a gravi equivoci di fatto, la maggioranza ha anche scelto un approccio errato in diritto, ritengo opportuno ribadire innanzitutto l' acquis della giurisprudenza della Corte in materia di misure di confisca preventiva, sia con riferimento al sistema dello Stato convenuto (l'Italia è stata un pioniere in questo settore del diritto) sia con riferimento ai sistemi di altri Stati, nonché con riferimento al diritto dell'Unione e al diritto internazionale: come si presentava prima dell'intervento sconsiderato della maggioranza nel caso di specie, ovviamente.
Il sistema delle misure di prevenzione, in particolare quello vigente in Italia, è stato esaminato dalla Corte in numerose occasioni. Più recentemente, nella sentenza Garofalo e altri ((dec.), nn. 47269/18 e altri 3, 21 gennaio 2025), la Corte si è concentrata sulle misure di prevenzione personali e, più specificamente, patrimoniali ; di particolare interesse è la parte dedicata alla misura in esame nel caso di specie – la confisca.
Infatti, nella sentenza Garofalo e altri (citata sopra, §§ 14-27), la Corte ha fornito una cronologia dettagliata – per certi aspetti più chiara di quella fornita dalla maggioranza nella sentenza Isaia e altri – dello sviluppo delle misure di prevenzione, in particolare della confisca, nell'ordinamento giuridico italiano e dell'approccio della Corte a tale misura.
Nella sentenza Garofalo e altri (citata sopra, § 115), in linea con la sua precedente giurisprudenza, la Corte ha ribadito che la confisca preventiva, così come concepita in Italia come Paese pioniere, “sembra essere l’espressione di un crescente consenso internazionale [sul suo utilizzo] al fine di sottrarre beni di provenienza illecita alla circolazione economica, con o senza previo accertamento di responsabilità penale”. In effetti, l’evoluzione che ha portato all’introduzione della confisca preventiva nello Stato convenuto è spesso considerata positiva, persino un “successo”, poiché, in una certa misura, l’esperienza italiana è divenuta un “modello” per la legislazione di altri Stati, il quadro normativo dell’Unione Europea e il diritto internazionale basato sui trattati. Devo tuttavia aggiungere che ciò che può certamente essere definito un “successo” sono state purtroppo misure che lo Stato convenuto è stato costretto a mettere in atto sotto la pressione di mali sociali profondamente radicati, in particolare il radicamento di lunga data di organizzazioni di tipo mafioso. Questo è un aspetto che chiunque si occupi di diritto delle confische preventive dovrebbe tenere presente.
La giurisprudenza della Corte ha quindi riconosciuto le profonde differenze funzionali e strutturali tra il procedimento in materia di misure di prevenzione e il processo penale. Nel primo, ciò che viene valutato non sono i singoli fatti, ma il complesso dei comportamenti, che sono rilevanti ai fini della valutazione della categoria, così come prevista dalla legge, del pericolo per la società rappresentato dal soggetto in questione (che deve tuttavia essere fondata sulla prova di “elementi di fatto”) e non il mero sospetto – si veda, ad esempio, la descrizione della categoria rilevante fatta dalla maggioranza, paragrafo 20 della presente sentenza). In quest'ultima, invece, sono i singoli atti ad essere giudicati, da commisurare agli elementi costitutivi di specifici reati.
Questa differenza “ontologica” spiega l’autonomia dei due procedimenti e il fatto che, nel procedimento relativo alle misure di prevenzione, il giudice ha il diritto di basarsi su elementi probatori e indiziari tratti dal procedimento penale, indipendentemente dal suo esito, individuando i fatti rilevanti ivi accertati e rivalutandoli attraverso il prisma della giustizia preventiva. Pertanto, ai fini della prevenzione, il giudice può tenere conto non solo degli elementi di fatto tratti da una sentenza di condanna, ma anche di quanto accertato nelle sentenze con cui il giudice penale ha dichiarato il reato prescritto (cfr. articoli 578, 578 - bis e 578- ter del codice di procedura penale). Tale autonomia – comune ad altri ordinamenti europei – determina un esito indipendente, indipendentemente dal fatto che il processo penale preceda o si svolga parallelamente al procedimento relativo alle misure di prevenzione. Pertanto, anche un'assoluzione non preclude necessariamente l'irrogazione di una misura di prevenzione, poiché la valutazione nel procedimento di prevenzione, volta ad accertare la pericolosità sociale del singolo, si basa su criteri diversi, purché, naturalmente, il giudice penale non abbia escluso la sussistenza stessa dei medesimi fatti in questione. In generale, anche semplici riscontri investigativi possono essere sufficienti, se adeguatamente valutati nel giudizio di prevenzione.
Nella parte rilevante della decisione, Garofalo e altri hanno spiegato che “le misure di prevenzione applicate indipendentemente dalla prova della commissione di un reato risalgono al XIX secolo in Italia” (citato sopra, § 14). A seguito dell’entrata in vigore della Costituzione nel 1948, che ha posto particolare enfasi sulla tutela delle libertà fondamentali, tali misure sono state riformulate nell’importante legge n. 1423 del 1956, poi modificata dalla legge n. 327 del 1988 (ibidem, § 16). La sentenza ha ulteriormente chiarito il rapporto tra il quadro generale – applicabile ai soggetti pericolosi indipendentemente da qualsiasi collegamento con organizzazioni di tipo mafioso – e l’estensione delle misure apportata dalla legge n. 575 del 31 maggio 1965, che ha previsto l'applicabilità delle misure di prevenzione alle persone sospettate di appartenenza ad un'organizzazione di tipo mafioso (ove l'appartenenza è un concetto giuridico che comprende sia i membri effettivi di tali organizzazioni sia le persone esterne) (ibid., § 17).
Nella sentenza Garofalo e altri , la Corte ha anche riconosciuto il ruolo cruciale svolto dalla giurisprudenza nazionale, e in particolare dalla Corte costituzionale (l'unico organo in Italia le cui sentenze hanno forza di legge), nel plasmare il vecchio sistema di misure di prevenzione e nell'adattarlo al principio di legalità (ibid., § 18).
La Corte ha poi osservato (nei §§ 19-20, che sembrano essere stati trascurati nella sentenza di maggioranza in Isaia e altri , come spiegherò) che, in base alla legislazione specifica adottata nel 19824, la confisca come misura preventiva è stata resa applicabile “indipendentemente dall’esistenza o meno di un pericolo attuale per la società rappresentato dall’individuo a cui la misura doveva applicarsi”, e quindi anche, come è ovvio nel caso della confisca, molto tempo dopo il periodo in cui l’individuo aveva rappresentato un pericolo per la società.
Un'ulteriore disposizione legislativa adottata nel 2009 ha consentito la confisca dei beni "indipendentemente dal pericolo per la società rappresentato dalla persona in questione al momento della richiesta della misura di prevenzione" (vedi Garofalo e altri , cit., § 21). Questa norma è ora sancita dall'articolo 18 § 1 del Codice pertinente (vedi sotto), come osservato nel paragrafo 25 di Garofalo e altri – eppure è assente dal ragionamento della maggioranza in Isaia e altri . Potrebbe questo spiegare perché insistono nell'applicare il concetto di "correlazione temporale" in modo troppo rigido?
Inoltre, Garofalo e altri hanno osservato che nel 2011 l'Italia aveva adottato il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (successivamente modificato nel 2017), che aveva consolidato e riformulato la legislazione sulle misure di prevenzione (comprese quelle applicabili ai contesti non mafiosi) (citato sopra, § 22).
Da un altro punto di vista, Garofalo e altri (citato sopra, §§ 37-50 ) hanno anch'essi esaminato la giurisprudenza pertinente della Corte di cassazione, evidenziando alcuni principi individuati nella sentenza n. 4880 delle Sezioni Unite del 2 febbraio 2015, Spinelli : vale a dire, la natura preventiva – e non punitiva – della confisca, fondata sulla pericolosità della persona al momento dell'acquisizione dei beni, e non necessariamente in una fase successiva in cui la confisca potrebbe aver luogo; la sua logica di fondo, consistente nel togliere dalla circolazione i beni illecitamente acquisiti per reintrodurli nell'economia legale; e, di conseguenza, l'applicabilità del principio tempus regit actum ai sensi dell'articolo 200 del codice penale (è proprio per determinare l'applicabilità di tale norma che soluzioni alternative erano state precedentemente dibattute nella giurisprudenza).
Particolare attenzione è stata dedicata alla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, in particolare alla sentenza n. 24 del 24 gennaio 2019 (cfr. Garofalo e altri , cit., §§ 52-57). Tale pronuncia – oltre a confrontarsi con la sentenza della Grande Camera nel caso De Tommaso su altri aspetti qui non rilevanti – ha confermato la natura preventiva della confisca, fondata sulla ragionevole presunzione che i beni siano stati acquisiti con proventi di attività illecite. Alla confisca può quindi essere riconosciuto un “carattere meramente risarcitorio, il cui scopo è quello di ripristinare la situazione che si sarebbe verificata se il bene non fosse stato illecitamente acquisito. Pertanto, quest'ultimo deve essere sottratto alla circolazione economica illecita, per essere invece reindirizzato ... a finalità di interesse pubblico ...”.
Veniamo ora alla parte più interessante del ragionamento della Corte nella causa Garofalo e altri , che si trova nella presentazione della giurisprudenza esistente della Corte che ha ritenuto il sistema italiano conforme alla Convenzione. Questa è anche la parte più rilevante per la discussione dell'approccio sconsiderato della maggioranza nella causa Isaia e altri . La Corte ha osservato (vedi Garofalo e altri , cit., § 80), ad esempio, quanto segue:
A quanto emerge dalla sentenza Garofalo e altri , si potrebbe aggiungere che, nel caso fondamentale Gogitidze e altri contro Georgia (n. 36862/05 , § 105, 12 maggio 2015 – in cui la Corte ha riconosciuto, come menzionato nella sentenza Garofalo e altri , che si potrebbe affermare che esistano norme giuridiche comuni europee e persino universali che incoraggiano la confisca di beni collegati a gravi reati penali, senza la previa esistenza di una condanna penale), la Corte ha accettato che l'onere di provare l'origine legale dei beni presumibilmente acquisiti indebitamente potesse essere legittimamente trasferito sugli imputati e che le misure potessero essere applicate non solo ai proventi diretti del reato, ma anche ai beni, compresi eventuali redditi e altri benefici indiretti, ottenuti convertendo o trasformando i proventi diretti del reato o mescolandoli con altri beni, eventualmente legittimi. Infine, le misure di confisca potrebbero essere applicate non solo alle persone direttamente sospettate di reati penali, ma anche a terzi titolari di diritti di proprietà senza la necessaria buona fede , al fine di mascherare il loro ruolo illecito nell'accumulo della ricchezza in questione (in particolare, il ruolo di familiari e altri parenti stretti che si presumevano possedessero e gestissero informalmente i beni illeciti per conto dei presunti autori del reato; vedi Raimondo , citato sopra, § 30; Arcuri e altri , citato sopra; Morabito e altri c. Italia (dec.), n. 58572/00 , 7 giugno 2005; Butler c. Regno Unito (dec.), n. 41661/98 , CEDU 2002-VI; Webb c. Regno Unito (dec.), n. 56054/00 , 10 febbraio 2004; Saccoccia c. Austria , n. 69917/01 , § 88, 18 dicembre 2008; Silickiene c. Lituania , n. 20496/02 , § 65, 10 aprile 2012, in cui è stata imposta una misura di confisca alla vedova di un funzionario pubblico corrotto; Balsamo c. San Marino , nn. 20319/17 e 21414/17 , §§ 89 e 93, 8 ottobre 2019, in cui è stata imposta una misura di confisca anche ai figli a causa dei precedenti penali del padre; e Zaghini c. San Marino , n. 3405/21 , §§ 17 e 65, 11 maggio 2023, in cui il ricorrente era figlio di un uomo riconosciuto colpevole di riciclaggio di denaro).
Questa linea di giurisprudenza non deve essere dimenticata, e vi tornerò, in particolare per quanto riguarda Gogitidze e altri . E va notato che la decisione Garofalo e altri , nell'aggiornare la sua valutazione alla luce dell'attuale quadro giuridico interno in Italia, ha confermato la conclusione secondo cui la misura era conforme alla Convenzione e che l'articolo 7 era inapplicabile sulla base delle seguenti argomentazioni:
(UN) «la misura in questione, come risultante dalle modifiche legislative del 2008-09 e dai chiarimenti forniti dalla successiva giurisprudenza interna , presenta diversi elementi che la rendono più assimilabile alla restituzione di un arricchimento ingiustificato piuttosto che ad una sanzione pecuniaria di diritto penale» (ibid., § 126) ;
(B) «la Corte di Cassazione, pur avendo distinto la confisca in questione da una vera e propria actio in rem ..., ha ritenuto che l'obiettivo del provvedimento fosse comunque quello di sottrarre alla circolazione economica i 'beni pericolosi' ..., individuati come tali in base al fatto che erano stati acquisiti da un soggetto che, al momento dell'acquisizione, rientrava in una delle categorie soggettive, previste dalla legge, dei soggetti sospettati di aver commesso reati ... L'obiettivo del provvedimento nei confronti del bene, e non della persona, risulta evidente dal fatto che la confisca può essere disposta anche nei confronti di beni appartenenti a un terzo che li ha ereditati o acquistati, se tali beni sono stati acquisiti da uno dei soggetti sopra indicati e il terzo non vanta alcun valido diritto legale su di essi» (ibid., § 127);
(C) «il fatto che la confisca in questione potesse essere applicata esclusivamente a beni che si presumessero provenienti da attività illecite, in mancanza di prove che ne dimostrassero l'origine lecita» (ibid., § 129), e che, «alla luce dei chiarimenti forniti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, la portata della misura in questione doveva essere limitata dalla sua finalità di impedire l'arricchimento senza causa: ... la misura poteva essere giustificata solo nella misura in cui i reati presumibilmente commessi dall'interessato costituissero fonte di profitti illeciti, in misura ragionevolmente congrua al valore dei beni da confiscare» (ibid., § 130). Inoltre, come “stabilito dalla Corte di Cassazione ... e confermato dalla Corte Costituzionale ..., ... la misura poteva essere applicata solo con riguardo ai beni acquisiti dall'interessato durante il periodo in cui questi aveva presumibilmente commesso reati che comportavano un profitto illecito”, e più precisamente “profitti illeciti derivanti dai reati presumibilmente commessi dall'interessato” (ibid., §§ 131-32).
Prima di concludere, nell'applicare i suoi criteri per determinare se la confisca costituisse una pena ai sensi dell'accezione autonoma della Convenzione, nella sentenza Garofalo e altri la Corte ha ritenuto che non fosse decisivo il fatto che "un ordine di confisca [potesse] essere utilizzato per confiscare beni di valore considerevole, e che non vi fosse alcun limite massimo per tale valore" (ibid., § 135), poiché "indipendentemente dal valore, la confisca [era] applicabile solo ai beni di cui non si poteva risalire all'origine legale. In particolare, essa [era] limitata a quei beni per i quali, a causa del pericolo per la società rappresentato dall'individuo al momento della loro acquisizione e della discrepanza tra tali beni e il reddito legittimo dell'individuo, vi era una presunzione legalmente giustificata che essi [fossero] profitti di reato" (ibid., § 137). Di conseguenza – ha concluso la Corte nella sentenza Garofalo e altri – la confisca preventiva in Italia non doveva essere considerata una “pena”, e l’articolo 7 della Convenzione non era applicabile (ibid., § 140).
Ciò premesso, sorge ora la questione se questo approccio tradizionalmente favorevole alla confisca preventiva si sia effettivamente modificato e se la giurisprudenza successiva – in particolare quella bulgara in materia di confisca – abbia imposto limitazioni così ampie alla sua applicabilità da rendere, nella pratica, irraggiungibili gli obiettivi della confisca preventiva. Prima di affrontare tale questione, tuttavia, esporrò brevemente i principi europei e internazionali pertinenti.
Il più ampio contesto giuridico europeo e internazionale
Nella loro sentenza (v. paragrafo 33 della presente sentenza), la maggioranza ha giustamente fatto riferimento alla sentenza Garofalo e altri , in cui sono state debitamente citate le principali fonti del diritto dell'Unione e del diritto internazionale in materia di confisca non basata sulla condanna (categoria che comprende la confisca preventiva).
È tuttavia utile evidenziare alcune disposizioni particolarmente rilevanti per il caso di specie. In particolare, l'intero quadro giuridico sulla confisca non basata sulla condanna è stato ulteriormente delineato con l'adozione della Direttiva (UE) 2024/1260 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 aprile 2024, relativa al recupero e alla confisca dei beni. Tale strumento – inteso a rafforzare la capacità delle autorità competenti di privare i criminali dei proventi di reato estendendo l'ambito di applicazione della confisca non basata sulla condanna – contiene, all'articolo 16, una sorprendente innovazione in materia di "confisca di patrimoni ingiustificati collegati a condotte criminose". A determinate condizioni, tale disposizione consente di tenere conto del fatto che "il valore del bene è sostanzialmente sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona interessata", "non vi è alcuna plausibile fonte lecita del bene" e "la persona interessata è collegata a persone collegate a un'organizzazione criminale".
Quanto al diritto internazionale dei trattati, occorre rilevare che lo strumento globale più ampiamente rispettato, vale a dire la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale – la cosiddetta Convenzione di Palermo del 12-15 dicembre 2000 , la cui storia è legata alle stesse circostanze che hanno portato l’Italia a svolgere un ruolo pionieristico in questo settore del diritto – contiene l’interessante articolo 12 § 7, che dispone quanto segue:
“Gli Stati parti possono prendere in considerazione la possibilità di richiedere all’autore del reato di dimostrare l’origine legale dei presunti proventi di reato o di altri beni passibili di confisca, nella misura in cui tale requisito sia compatibile con i principi del loro diritto interno e con la natura del procedimento giudiziario e di altro tipo.”
Una clausola parallela è contenuta nella Convenzione del Consiglio d'Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato e sul finanziamento del terrorismo (CETS198), la cosiddetta Convenzione di Varsavia del 16 maggio 2005, espressamente citata in Garofalo e altri (citato sopra, §§ 63-64). L'articolo 3 § 4 stabilisce quanto segue:
“Ciascuna Parte adotta le misure legislative o di altra natura necessarie per esigere che, in relazione a un reato grave o a reati gravi definiti dal diritto nazionale, l’autore del reato dimostri l’origine dei presunti proventi o di altri beni passibili di confisca, nella misura in cui tale obbligo sia coerente con i principi del proprio diritto interno.”
Dalle disposizioni sopra richiamate emerge quindi che esiste, sia a livello europeo che internazionale, un chiaro consenso: i requisiti procedurali e probatori sono lasciati alla valutazione dei singoli Stati, ma non è prescritto – anzi, è esplicitamente previsto – che l’onere della prova a carico delle autorità statali possa essere indiziario e che esso possa essere invertito in relazione a patrimoni inspiegati detenuti da individui collegati a condotte criminali.
Lo stato attuale della giurisprudenza della Corte: perché la giurisprudenza bulgara in materia di confisca è specifica del contesto e non esportabile, con riferimento a Pacurar contro Romania
(UN) Giurisprudenza consolidata
Come accennato, la Corte ha trattato vari casi di confisca non basata su una condanna . A parte la giurisprudenza bulgara in materia di confisca, che esaminerò, la Corte ha costantemente ritenuto che le norme e le prassi interne dei vari Paesi fossero conformi alla Convenzione, salvo pochissime eccezioni basate su questioni non pertinenti al caso di specie.
La giurisprudenza della Corte relativa all'Italia è già stata citata in precedenza. Vorrei fare riferimento, ad esempio, al caso Raimondo del 1994 , riguardante la confisca preventiva in un contesto mafioso (quindi solo parzialmente paragonabile al nostro caso, come ad alcuni altri). La Corte ha accettato che si trattasse di misure di carattere amministrativo, non collegate alla commissione di uno specifico illecito, bensì a un modello di comportamento definito dalla legge come indicativo di pericolosità sociale. È importante notare che in tale contesto, per quanto riguarda l'onere della prova, la Corte ha accettato che l'accusa dovesse dimostrare prove che dimostrassero l'appartenenza dell'imputato a gruppi di tipo mafioso , unitamente a una notevole discrepanza tra il suo stile di vita e il suo reddito apparente o dichiarato, al fine di dimostrare che i beni in questione rappresentassero il ricavato di attività illecite o il loro reinvestimento. Ciò ha spostato sull'imputato l'onere di dimostrare la fonte legittima del reddito o del patrimonio. Dopo la confisca, il ricorrente è stato successivamente assolto per insufficienza di prove. Ciononostante, le misure preventive non sono state considerate come una confisca illegittima.
Analogamente, nel caso Arcuri e altri del 2001 , per quanto riguarda l'onere della prova, la Corte ha ritenuto sufficiente che le prove dimostrassero che almeno una parte del considerevole patrimonio del primo ricorrente era stato acquisito illecitamente, mentre i documenti rinvenuti nella sua abitazione rivelavano stretti contatti con persone coinvolte nella criminalità organizzata; le indagini hanno inoltre evidenziato una discrepanza tra i suoi mezzi finanziari e le sue legittime attività commerciali e il reddito dichiarato. Anche in questo caso, il principio accettato dalla Corte era che spettava all'accusa fornire prove indiziarie sufficienti, come una notevole discrepanza tra lo stile di vita e il reddito dichiarato, per dimostrare che i beni rappresentavano il ricavato di attività illecite o il loro reinvestimento.
Analogamente, nel caso Riela , sempre del 2001, la Corte dichiarò la domanda inammissibile per ragioni simili a quelle del caso di cui sopra, accettando ancora una volta che l'onere di stabilire prove circostanziali sufficienti spettasse all'accusa.
Questa è la giurisprudenza della Corte relativa all'Italia; è interessante notare anche la giurisprudenza relativa ad altri ordinamenti, talvolta di natura diversa. Tralasciando i casi già citati relativi a San Marino (che confermano lo stesso approccio dell'Italia), vale la pena di notare la giurisprudenza della Corte relativa al Regno Unito. Due sentenze sono particolarmente importanti. La prima è Phillips c. Regno Unito (n. 41087/98 , CEDU 2001-VII), riguardante la confisca di “reddito imputato” derivante dal traffico di droga. La Corte ha accettato che un collegamento con “qualche” attività criminale fosse sufficiente, sulla base di un modello di comportamento criminale passato: il ricorrente aveva precedenti condanne (anche se non per reati connessi alla droga). La Corte ha accettato l’importante principio secondo cui spettava all’accusa semplicemente stabilire, sulla base della preponderanza delle probabilità, che il ricorrente avesse tratto beneficio dal traffico di droga, a meno che il ricorrente non dimostrasse, sempre sulla base della preponderanza delle probabilità, che l’ipotesi era errata o che ne sarebbe derivato un grave rischio di ingiustizia.
Un passaggio cruciale a cui la maggioranza nella causa Isaia e altri avrebbe dovuto prestare la dovuta attenzione si trova nel paragrafo 197 della sentenza Pacurar , che riproduco di seguito. Tale paragrafo faceva seguito a una serie di considerazioni in cui la Corte aveva ritenuto inapplicabile la giurisprudenza bulgara in materia di confisca, rinviando invece alla giurisprudenza italiana:
“Infine, la Corte ritiene opportuno sottolineare ancora una volta, così come ha sottolineato la CGUE nella sentenza TAC contro Agentia Nationala de Integritate nel valutare la proporzionalità di un'altra misura prevista dalla legge n. 176/2010 ..., che la valutazione della proporzionalità della misura in questione deve essere effettuata alla luce dell'importanza della lotta alla corruzione nel settore pubblico in Romania e della priorità attribuita a tale obiettivo dal governo rumeno ... La Corte [ha] costantemente ritenuto che il legislatore debba disporre di un ampio margine di apprezzamento rispetto alle misure adottate nel contesto di problemi specifici che colpiscono in modo particolare uno Stato membro, come la corruzione o la criminalità organizzata. Ad esempio, in una serie di casi contro l'Italia, la Corte ha ritenuto che, nel contesto della lotta alla criminalità organizzata, la confisca in assenza di condanna penale fosse proporzionata quando riguardava i beni di persone che erano in contatto regolare con presunti membri di organizzazioni criminali solo quando vi era una notevole discrepanza tra le loro risorse finanziarie e le loro reddito (cfr. Arcuri c. Italia (dec.), n. 52024/99 , CEDU 2001-VII; e Riela e altri c. Italia (dec.), n. 52439/99 , 4 settembre 2001). Anche nel caso di specie, nel contesto della lotta alla corruzione in Romania, la Corte ritiene che la confisca sia proporzionata in quanto applicata a un gruppo specifico di persone ..., essa è intervenuta unicamente in seguito alla mancata compilazione corretta da parte del ricorrente delle sue dichiarazioni patrimoniali ... e quando è stata riscontrata una differenza (di oltre 10.000 euro) tra i suoi redditi e le sue spese, differenza che non poteva essere giustificata in base alle regole generali della prova nel processo civile ...”
In sintesi, mentre la giurisprudenza “italiana” è stata espressamente e positivamente accolta (appartenenza della persona a una categoria di pericolosità sociale; ricchezza ingiustificata; garanzie per gli imputati nel contraddittorio), la giurisprudenza “bulgara” è stata esplicitamente distinta come confinata al suo proprio, diverso contesto. Eppure, la sentenza di maggioranza nel caso Isaia e altri , inspiegabilmente, non ha tenuto conto di ciò.
Punti di dissenso: ragioni specifiche per respingere le deviazioni della maggioranza dalla linea di autorità della Corte
In questo contesto di quadro normativo interno valutato positivamente – confermato non solo dalla giurisprudenza della Corte nella sentenza Pacurar (e dalla peculiarità della giurisprudenza bulgara in materia di confisca), ma anche dagli sviluppi a livello europeo e internazionale – la sentenza della maggioranza nel caso Isaia e altri ha introdotto una serie di rotture, che interromperanno bruscamente il dialogo consolidato con una serie di consessi che lavorano sul potenziale della confisca non basata sulla condanna (ad esempio, il Consiglio d'Europa, il GRECO e il MONEYVAL). Inoltre, dopo che la Corte ha chiaramente accettato nel caso Garofalo e altri la natura riparatoria della confisca preventiva nell'ordinamento italiano – paragonandola a un rimedio di diritto civile come la restituzione dell'arricchimento ingiustificato (vedi sopra) – la maggioranza nel caso Isaia e altri ha bruscamente invertito la rotta anche a questo riguardo, citando Garofalo e altri ma stabilendo nuovi requisiti per l'ordinamento italiano che saranno incompatibili con un contesto di tipo civilistico.
Una rapida analisi della sentenza della maggioranza – che conteneva una serie di sorprendenti passi indietro (basati sulla giurisprudenza bulgara in materia di confisca , che spesso hanno anche interpretato male (vedi paragrafo 94 di seguito)) e ignorava la restante giurisprudenza – aiuterà a chiarire il mio dissenso.
Partiamo dal fondamento della Convenzione: pur citando al paragrafo 40 l'ampia giurisprudenza (riguardante l'Italia e sistemi comparabili) che aveva costantemente trattato le misure preventive come una forma di "controllo dell'uso dei beni" ai sensi del secondo paragrafo dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, la maggioranza si è invece lasciata influenzare, al paragrafo 42 della sentenza Isaia e altri , dalla recente giurisprudenza relativa alla Bulgaria – ancora una volta, un sistema completamente diverso con un ambito legislativo troppo ampio per le confische – e ha rifiutato di prendere posizione sulla questione se la misura costituisse un controllo dell'uso dei beni (secondo paragrafo dell'articolo 1 del Protocollo n. 1) o una privazione di proprietà (seconda frase del primo paragrafo).
Simbolicamente, questa ambiguità è altamente significativa. A differenza di Garofalo e altri , la maggioranza di Isaia e altri ha evitato di affermare che la sottrazione di beni presumibilmente criminali all'economia illegale serva a regolare e proteggere l'economia legale. Ciò costituisce l'esercizio di una forma particolarmente intensa di autorità statale – si pensi all'espressione "come ritiene necessario" nella formulazione del secondo comma dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 – che, purché rispettosa dei diritti umani, merita di essere riconosciuta al pari della riscossione di "imposte" e "sanzioni", piuttosto che essere sminuita (l'uso deliberato del verbo "deteriorare" nel secondo comma è molto significativo) confondendola con altre privazioni di proprietà nell'interesse pubblico ai sensi del primo comma (come le espropriazioni per pubblica utilità, che sono molto più vicine all'acquisizione di beni a pagamento che alla confisca). A mio avviso, è essenziale non essere ambigui.
Devo ora passare al modo in cui la maggioranza ha deciso di esaminare il caso secondo le categorie della Convenzione. Avendo riconosciuto, al precedente paragrafo 62, che l'atto impugnato aveva una base giuridica accessibile, al paragrafo 63 la maggioranza – oltre alla peculiare dichiarazione di ammissibilità che ho già, con rammarico, dovuto criticare – si è impegnata in un altro esercizio creativo. Ha formulato la seguente ipotesi:
“Il disaccordo delle parti verteva, piuttosto, sul rispetto delle condizioni e delle limitazioni imposte dal diritto interno, come interpretato nella pertinente giurisprudenza interna, ai fini dell’applicazione della confisca contestata, con specifico riguardo: (i) alla natura e alla gravità dei reati la cui commissione giustificava l’accertamento che la persona in questione aveva rappresentato un pericolo per la società, comportando una presunzione che i beni acquisiti durante tale periodo fossero il frutto di attività illecite, e (ii) alla delimitazione temporale dei beni che, in quanto acquisiti durante il periodo in cui la persona in questione aveva commesso reati penali, potevano essere confiscati.”
Ora, mentre del punto (ii) – la cosiddetta questione della “delimitazione temporale” – vi era effettivamente, come abbiamo visto, un breve accenno nei moduli di ricorso, del punto (i) – vale a dire, la rilevanza della natura dei reati alla base della constatazione di pericolosità – non vi era alcuna menzione nei ricorsi originari. Tale questione è stata sollevata solo in seguito, nelle osservazioni delle parti, e specificamente in risposta a un quesito (Questione
(A) posto dalla Corte. Tuttavia, la Corte, come abbiamo visto, non può andare oltre le questioni sollevate dalle parti. La questione è stata formulata dalla Camera al di fuori della sua competenza, e la maggioranza non avrebbe dovuto prendere in considerazione osservazioni estranee alle doglianze originarie.
Il mio fermo disaccordo con l'idea che ciò vada oltre l'ambito dei ricorsi originari – anche al di là di quanto ho già discusso in relazione all'ammissibilità – mi porta a temere che, qualora il caso venisse rinviato alla Grande Camera, l'approccio della maggioranza richiederebbe un riesame completo. Tuttavia, ai fini di quanto segue, devo esaminare il ragionamento della maggioranza così com'è, sebbene esso esuli manifestamente dai limiti propri del caso.
La mia preoccupazione per l'approccio della maggioranza si aggrava ulteriormente: al paragrafo 64, la maggioranza ha esaminato congiuntamente le questioni di legittimità e proporzionalità. Anche su questo punto devo dissentire. Per quanto riguarda la proporzionalità, come abbiamo visto, nei ricorsi originari non è mai stata sollevata alcuna censura di questo tipo. Le parti hanno affrontato la questione solo dopo che la Corte le aveva sollecitate a farlo nella questione 1.2. Anche da questo punto di vista, la Corte ha travalicato la portata delle censure e non avrebbe dovuto esaminare tali aspetti.
Da questo punto in poi, fondendo insieme molteplici questioni – molte delle quali mai sollevate dai ricorrenti – la maggioranza ha avviato uno smantellamento senza precedenti del sistema italiano di confisca preventiva, “dissolvendo” ogni aspetto in una valutazione di proporzionalità sotto la guida di una giurisprudenza inapplicabile. Un simile metodo di giudizio non può essere lodato.
Quindi, mentre fino al paragrafo 71 della sentenza Isaia e altri la maggioranza si limitava ancora ad argomenti almeno marginalmente pertinenti al caso di specie, è dal paragrafo 72 in poi, tuttavia, che ha iniziato ad applicare principi che traevano spunto dalla giurisprudenza bulgara in materia di confisca, inapplicabile. In particolare:
(UN) Al paragrafo 72 sono stati enunciati dei "principi" (che, come si vedrà, non sono affatto "principi", ma semplici punti rilevati in un approccio olistico), derivati dalla giurisprudenza bulgara in materia di confisca, elevando a norme generali – e, cosa più importante, autonome – quelle che erano state prudenti osservazioni della Corte, limitate al contesto di quel Paese. Queste riguardavano dubbi in merito a confische basate su reati presumibilmente non gravi, o non produttivi di profitto, o imposte laddove le discrepanze tra reddito legittimo e reddito effettivo non fossero "significative". In sintesi, nella sentenza Todorov e altri e nella successiva giurisprudenza, il sistema bulgaro è stato valutato dalla Corte – come spesso accade – in modo globale e olistico (si veda, ad esempio, Todorov e altri , cit., § 215, dove la Corte ha chiaramente affermato che l'“equilibrio” era stato “sbilanciato” come “effetto cumulativo” delle caratteristiche del sistema; si veda anche Yordanov , cit., § 124): un dubbio in un ambito non richiedeva necessariamente l'eliminazione del quadro normativo rilevante, poiché anche una singola modifica in un altro ambito poteva ripristinare l'equilibrio. La maggioranza nella sentenza Isaia e altri , tuttavia, ha trattato ciascuno di questi dubbi come “principi” autonomi e ha cercato di applicarli, ciascuno indipendentemente dall'altro, all'Italia (si veda, ad esempio, al paragrafo 72 della sentenza di maggioranza, la natura dei reati presupposto).
(B) Al paragrafo 73, la sentenza ha dichiarato che deve sussistere un "nesso" tra i reati presupposto e i beni da confiscare. Il ragionamento che ne è seguito si confonde, confondendo tale concetto con altri elementi in un modo che, a mio avviso, è poco chiaro. Ciò che è importante, a mio avviso, è il ruolo delle presunzioni, che – secondo la giurisprudenza della Corte – non possono essere escluse da questo tipo di valutazione, mentre il "nesso" troppo rigido, come previsto dalla maggioranza, rischia proprio di farlo. Inoltre, il riferimento al paragrafo 212 della sentenza Todorov e altri è improprio: il nesso menzionato nel contesto bulgaro potrebbe essere "dimostrato" o anche semplicemente "presumibile", e potrebbe essere "diretto o indiretto". Questo è il tipo di nesso accettabile in una confisca preventiva (ed è stato effettivamente accettato dalla Corte nella sentenza Todorov e altri , paragrafo 212, che la maggioranza non ha citato integralmente).
(C) Al paragrafo 74, la maggioranza ha affermato che i giudici nazionali dovrebbero fornire "alcuni particolari" in merito alla "presunta condotta criminale da cui sarebbero derivati i beni da confiscare" e dovrebbero dimostrare in modo motivato che tali beni avrebbero potuto essere il provento della presunta condotta criminale. Anche qui vi è confusione: i beni soggetti a confisca non sono necessariamente quelli direttamente (o indirettamente) generati da reati. Un nesso deve certamente esistere, ma non richiede una derivazione certa; altrimenti, si parlerebbe di altre forme di confisca, non di confisca preventiva.
(D) Al paragrafo 75, in modo alquanto inspiegabile, è stata invocata la sentenza Garofalo e altri . Tuttavia, i passaggi selezionati non riflettono accuratamente il sistema italiano, in particolare per quanto riguarda la "correlazione temporale". In effetti, non viene menzionata la possibilità di una correlazione "differita", che – come abbiamo visto (cfr. paragrafi 9 e 11 supra) – è stata accettata dagli stessi ricorrenti, che hanno citato la giurisprudenza pertinente nei loro ricorsi, ed è stata menzionata anche dalla maggioranza al paragrafo 30 della presente sentenza.
(E) Al paragrafo 76, mentre la maggioranza ha osservato che "la Corte non ha richiesto la prova 'oltre ogni ragionevole dubbio' dell'origine illecita dei beni", ha immediatamente modificato tale principio facendo riferimento alla giurisprudenza bulgara in materia di confisca, aggiungendo che "l'ordinamento giuridico interno dovrebbe limitare il periodo di tempo in cui i beni rilevanti possono essere confiscati, al fine di non rendere eccessivamente oneroso per l'interessato fornire la prova del reddito legittimo o della provenienza lecita dei beni acquisiti molti anni prima dell'apertura del procedimento di confisca". Come già visto in precedenza (cfr. paragrafo 30 della sentenza della maggioranza), la legge italiana prevede espressamente la possibilità di una correlazione "differita" e la giurisprudenza interna ne ha confermato la legittimità sulla base di un ragionamento giudiziale approfondito. Tale requisito di ragionamento giudiziale costituisce la garanzia contro un eccessivo onere della prova a carico dell'imputato.
(F) Al paragrafo 77, la maggioranza, dopo aver ribadito la giurisprudenza tradizionale della Corte secondo cui le autorità nazionali possono applicare la confisca non solo agli autori del reato, ma anche ai familiari e ad altri parenti stretti che si presume detengano o gestiscano beni illeciti (vedi Gogitidze e altri , cit., § 107; Telbis e Viziteu c. Romania , n. 47911/15 , § 68, 26 giugno 2018; e Balsamo , cit., § 91), ha bruscamente cambiato posizione. Riferendosi ancora una volta alla giurisprudenza bulgara in materia di confisca, ora richiede un "nesso tra il bene in questione e i reati commessi dal presunto autore del reato, senza basarsi sulla mera discrepanza tra il reddito e le spese del proprietario del bene". Nel contesto delle confische nei confronti di terzi – materia specificamente regolata dall’ordinamento italiano, come già accennato – le implicazioni di tale requisito risultano del tutto poco chiare.
Concludendo sulla non violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1
Sebbene, come ho spiegato, ritenga che non sia mai stata sollevata alcuna denuncia ai sensi dell'articolo 1 del Protocollo n. 1, ho dovuto adattare il mio ragionamento e criticare la sentenza della maggioranza come se fosse stata denunciata una tale violazione.
Supponendo, pertanto, che tale ipotetica doglianza esistesse, confido che, alla luce del mio esercizio, sia chiaro che non si possa riscontrare alcuna violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1. Sulla base della consolidata giurisprudenza della Corte , i giudici nazionali italiani – senza violare alcuna disposizione del diritto nazionale – hanno ampiamente motivato la conclusione secondo cui almeno due membri del nucleo familiare dei ricorrenti rientravano nelle categorie di pericolosità sociale previste dalla legge, che vi era un manifesto squilibrio tra i beni detenuti e i loro redditi legittimi e che – attraverso i reinvestimenti, che giustificavano il ritardo temporale nella confisca – si poteva presumere che i beni provenissero da attività illecite e fossero detenuti in proprietà fittizia.
Trovo particolarmente preoccupante che, nei paragrafi 91 e 92, la maggioranza della sentenza Isaia e altri si spinga fino al punto, senza giustificazione sostanziale, di imputare ai tribunali nazionali non solo di aver violato la Convenzione, ma anche di aver contravvenuto a presunti criteri stabiliti dalla legislazione e dalla giurisprudenza nazionali . Tali criteri sono stati presentati, come ho dimostrato, in modo unilaterale e confuso, confondendo principi giurisprudenziali mal compresi e talvolta travisando il quadro giuridico (ad esempio, in relazione alla dimostrazione della catena di reinvestimento che giustifica la correlazione ritardata).
La Corte – che normalmente ritiene che i giudici nazionali siano i più adatti a valutare sia i fatti sia il diritto applicabile, nello spirito di sussidiarietà – ha qui, attraverso la maggioranza, assunto il pericoloso ruolo di super - giudice. Ha bollato come arbitrarie decisioni nazionali che, di fatto, rimanevano interamente nell'ambito del quadro giuridico applicabile e, soprattutto, rispettavano la Convenzione.
CONCLUSIONE GENERALE
Le questioni che ho cercato di affrontare, come sarà evidente, sollevano seri interrogativi di interpretazione e applicazione della Convenzione, che riguardano sia l'ammissibilità dei ricorsi (e la portata dei poteri della Corte di riqualificare e/o prendere in considerazione le osservazioni delle parti che integrano le doglianze formulate nei moduli di ricorso) sia il loro merito.
In un certo senso, pur avendo dovuto necessariamente sottolineare le questioni di ammissibilità, devo riconoscere che – qualora i ricorsi fossero ritenuti, contrariamente al mio parere, ammissibili, in tutto o in parte – ciò che potrebbe essere di maggiore importanza è il riesame, nel caso di specie, da parte della Corte, della compatibilità con la Convenzione delle misure di confisca preventiva. Queste sono state oggetto di una giurisprudenza costante e consolidata (in un più ampio contesto di trattati internazionali e dell'Unione), da ultimo ribadita nella sentenza Pacurar (citata sopra), in contrasto con l'approccio della maggioranza nella sentenza Isaia e altri , che si basava invece su una giurisprudenza bulgara che iniziava con la sentenza Todorov e altri .
Qualora la presente causa dovesse essere deferita alla Grande Camera, come auspico – su richiesta dell’interessato – o dovesse semplicemente essere ripresa in sentenze successive, ritengo che la portata e le modalità di applicazione della giurisprudenza conflittuale e/o coesistente sopra menzionata dovranno essere chiarite. Ciò è tanto più necessario alla luce della tendenza al crescente afflusso alla Corte di casi riguardanti confische non basate sulla condanna.
* Associato e docente di strategie di lotta alla criminalità organizzata transnazionale al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra.
[1] La sentenza è frutto di una revisione editoriale e della traduzione dall’inglese all’italiano da parte dell’autore, pertanto, ai sensi dell’art. 44 della Convenzione, non si esclude potrà essere soggetta a modifiche parziali prima della sua definitività.
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