Societario
Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 14/11/2025 Scarica PDF
La prova testimoniale del socio unico della società di capitali: limiti e ammissibilità tra interesse in causa e autonomia soggettiva
Paola Orlando, Dottoranda di ricerca in Gestione finanziaria d'impresa e prevenzione della crisi presso l'Universitas MercatorumSommario: 1. Premessa. 2. Il divieto di testimonianza per interesse in causa ex art. 246 c.p.c. 3. La posizione del socio rispetto alla società. 4. La prova testimoniale del socio unico (totalitario). 5. Brevi conclusioni.
1. Premessa
Il presente contributo si propone di approfondire la delicata questione della capacità a testimoniare del socio unico di una società di capitali coinvolta in un giudizio civile.
Si tratta di un tema di frequente riscontro nella prassi forense, ma che presenta profili di significativa complessità interpretativa, in ragione dell’intreccio tra l’autonomia soggettiva della persona giuridica e la posizione, di fatto preminente, del socio unico che ne detiene l’intero capitale sociale.
L’interrogativo di fondo è se il socio unico, titolare del 100% delle partecipazioni sociali, possa essere ammesso a testimoniare in un processo nel quale la società sia parte, oppure se la sua posizione determini una situazione di incapacità a testimoniare ai sensi dell’art. 246 c.p.c., disposizione che esclude dalla prova testimoniale “coloro che abbiano nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio come parte”[1].
La questione si colloca al crocevia tra il principio di autonomia patrimoniale perfetta delle società di capitali – che impone di distinguere rigorosamente la persona giuridica dai suoi soci – e la realtà economico-gestionale di molte società unipersonali, in cui la volontà del socio unico si identifica, in concreto, con quella dell’ente.
Tale identificazione fattuale induce a chiedersi se, e in che misura, il socio unico possa considerarsi portatore di un interesse personale e diretto nell’esito della lite che coinvolge la società, tale da compromettere la sua imparzialità come testimone.
La giurisprudenza non offre una soluzione univoca. Un primo orientamento, più rigoroso, ritiene che il socio unico sia incapace a testimoniare, in quanto titolare di un interesse identico e sovrapponibile a quello della società, di cui egli è l’unico beneficiario economico.
Altra parte della giurisprudenza, invece, valorizzando la distinzione soggettiva tra socio e società, ritiene che l’interesse del socio unico non si traduca automaticamente in un interesse giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 246 c.p.c., salvo che egli abbia partecipato personalmente ai fatti di causa in veste di organo sociale o che possa trarre un vantaggio immediato e diretto dall’esito della controversia.
La dottrina, a sua volta, ha evidenziato come la ratio dell’incapacità a testimoniare risieda non in una generica connessione d’interessi economici, bensì nella necessità di evitare che il testimone sia anche portatore di un interesse giuridico diretto nella causa, ossia di un interesse tale da poterlo legittimare ad agire o resistere in giudizio in proprio nome.
In questa prospettiva, l’unicità della partecipazione sociale, pur conferendo al socio un controllo totale sull’ente, non elimina l’autonomia soggettiva della società, la quale rimane titolare esclusiva dei rapporti giuridici dedotti in giudizio.
Ne consegue che la capacità testimoniale del socio unico dovrebbe essere valutata caso per caso, verificando se il suo interesse all’esito della lite assuma carattere personale, diretto e attuale, oppure se si limiti a riflettersi in modo mediato attraverso la partecipazione societaria.
Solo nel primo caso potrebbe configurarsi una vera e propria incapacità a testimoniare ai sensi dell’art. 246 c.p.c., mentre, nel secondo, la testimonianza dovrebbe essere ammessa, pur con la cautela che il giudice ne valuti con rigore l’attendibilità.
2. Il divieto di testimonianza per interesse in causa ex art. 246 c.p.c.
Si è detto che l’art. 246 c.p.c. stabilisce che non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.
La disposizione codicistica esprime il principio di incompatibilità tra la posizione di parte e quella di testimone, principio che si fonda sull’esigenza di garantire l’imparzialità e l’affidabilità della prova testimoniale, escludendo dal novero dei soggetti capaci coloro che, pur non essendo formalmente parti del giudizio, siano portatori di un interesse giuridico diretto all’esito della controversia.
L’incapacità a testimoniare, dunque, non si esaurisce nei confronti delle parti processuali in senso stretto, ma si estende anche a quei soggetti che, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., potrebbero intervenire nel processo per far valere un proprio diritto dipendente o connesso a quello dedotto in giudizio.
In tal senso, l’art. 246 opera come strumento di salvaguardia del principio di terzietà della prova testimoniale, impedendo che il testimone coincida, di fatto, con un soggetto potenzialmente legittimato ad agire o resistere nel processo.
La giurisprudenza[2] di legittimità si è mostrata costante nell’interpretazione della norma, affermando che l’“interesse nella causa” rilevante ai fini dell’incapacità deve coincidere con l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., ossia con un interesse giuridicamente tutelato, personale, concreto e attuale.
L’incapacità non può dunque derivare da un mero interesse di fatto, da una simpatia o avversione verso una parte, né da un vantaggio economico indiretto, ma richiede un rapporto immediato e qualificato tra il testimone e l’oggetto del giudizio, tale da rendere possibile la sua partecipazione come parte processuale.
Tale lettura consente di circoscrivere la portata dell’art. 246, evitando un’applicazione eccessivamente estensiva che finirebbe per compromettere l’efficacia del mezzo istruttorio. La ratio della norma non è infatti quella di escludere ogni testimone che possa avere un generico interesse nell’esito del processo, ma di impedire che il testimone assuma, anche solo potenzialmente, una duplicazione soggettiva della parte, con conseguente pregiudizio per la genuinità della prova.
Sotto il profilo processuale, la violazione del divieto previsto dall’art. 246 non determina una nullità assoluta, ma una nullità relativa della deposizione resa, ai sensi dell’art. 157, comma 2, c.p.c.
Tale nullità è sanabile se non eccepita tempestivamente dalla parte interessata, ossia prima della chiusura dell’assunzione della prova testimoniale[3]. L’eccezione, peraltro, può essere sollevata anche in via subordinata rispetto al merito dell’assunzione, ma non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, trattandosi di vizio posto a tutela delle parti e non dell’ordine pubblico processuale.
La disposizione in commento si inserisce così in un sistema di garanzie volto a bilanciare l’esigenza di completezza dell’istruzione probatoria con quella, altrettanto rilevante, di autenticità e imparzialità della fonte testimoniale, preservando la funzione epistemologica della prova nel processo civile.
3. La posizione del socio rispetto alla società.
La ricostruzione dei presupposti di cui all’art. 246 c.p.c. acquista particolare complessità quando la parte del processo è una società, sia essa di persone o di capitali, e la testimonianza venga richiesta a uno dei soci.
In tale evenienza, il problema della capacità testimoniale si intreccia con quello, più generale, della soggettività giuridica dell’ente e del grado di autonomia patrimoniale riconosciuto al medesimo rispetto ai singoli partecipanti.
La giurisprudenza di legittimità e di merito[4] ha costantemente operato una distinzione netta tra le società dotate di personalità giuridica (società di capitali e cooperative) e quelle prive di tale personalità (società di persone e associazioni non riconosciute).
Nel primo caso – che ricomprende le società per azioni, le società a responsabilità limitata e le società cooperative – la personalità giuridica e la conseguente autonomia patrimoniale perfetta determinano una rigorosa separazione tra la sfera giuridica della società e quella dei suoi soci. La società di capitali costituisce un centro autonomo di imputazione di rapporti giuridici, distinto non solo sul piano patrimoniale, ma anche su quello processuale.
Da ciò discende che il socio, anche laddove detenga l’intero capitale sociale, non è parte del rapporto dedotto in giudizio, e pertanto non può dirsi titolare di un interesse giuridico diretto all’esito della controversia.
L’interesse che egli potrebbe vantare – ad esempio in quanto beneficiario indiretto di un eventuale esito favorevole della causa – è qualificabile come interesse di mero fatto, insufficiente, secondo il costante orientamento della Cassazione, a integrare la causa di incapacità prevista dall’art. 246 c.p.c.
Tale impostazione è coerente con la ratio della norma, che, come visto, tende a escludere solo i soggetti il cui interesse giuridico sia tale da legittimare la partecipazione al giudizio in proprio nome. Poiché il socio di una società di capitali non è legittimato ad agire o resistere in giudizio in vece dell’ente, egli non può ritenersi incapace a testimoniare, neppure quando la sua partecipazione sia totalitaria. Il suo eventuale interesse patrimoniale rimane mediato dalla soggettività della società, che costituisce l’unico soggetto giuridico parte del processo.
Diversamente, nelle società di persone (società in nome collettivo e in accomandita semplice) e nelle associazioni non riconosciute, la mancanza di personalità giuridica e il regime di autonomia patrimoniale imperfetta fanno sì che i soci siano illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali e partecipino direttamente ai rapporti giuridici facenti capo alla società.
In tali ipotesi, la giurisprudenza ha coerentemente ritenuto che il socio debba considerarsi incapace a testimoniare, poiché la sua posizione giuridica è sostanzialmente coincidente con quella della parte processuale. Il socio, in altre parole, è portatore di un interesse immediato e personale nell’esito della lite, idoneo a legittimare un intervento nel processo ai sensi dell’art. 105 c.p.c., e quindi ricadente nel divieto di cui all’art. 246 c.p.c.
La distinzione in parola non è meramente nominalistica, ma si fonda sulla diversa architettura soggettiva e patrimoniale dei tipi societari: nella società di capitali l’autonomia della persona giuridica prevale, garantendo la terzietà del socio rispetto alla controversia; nella società di persone, invece, il vincolo di immedesimazione tra socio e società comporta una sostanziale identità di interessi, che rende incompatibile la funzione testimoniale con quella, potenziale, di parte.
4. La prova testimoniale del socio unico (totalitario).
Il problema della capacità a testimoniare assume connotati particolarmente complessi nel caso del socio unico (o totalitario) di una società di capitali, figura che, pur collocandosi all’interno dello schema tipico della società di capitali, presenta elementi di forte concentrazione soggettiva.
La società unipersonale, infatti, pur essendo composta da un solo socio, conserva integralmente la propria autonomia soggettiva e la distinzione patrimoniale rispetto al socio stesso, tanto sotto il profilo delle obbligazioni sociali, quanto con riferimento agli effetti giuridici degli atti posti in essere dall’ente.
Tale autonomia, radicata nel principio dell’art. 2462 c.c. per le s.r.l. e dell’art. 2325 c.c. per le s.p.a., impedisce di sovrapporre la figura del socio a quella della società, anche nei casi in cui il controllo economico e decisionale sia totale.
La Corte di cassazione ha più volte riaffermato che il socio di società di capitali non può essere ritenuto incapace a testimoniare ai sensi dell’art. 246 c.p.c., in quanto portatore di un interesse meramente di fatto, privo dei caratteri di giuridicità, personalità e attualità richiesti per configurare la causa di incapacità prevista dalla norma. In particolare, la Suprema Corte ha chiarito che l’interesse del socio, anche se totalitario, non integra l’interesse giuridico all’esito della lite, poiché non gli conferisce legittimazione autonoma a partecipare al giudizio, rimanendo la società l’unico soggetto processuale titolare del diritto controverso[5].
Tale principio è stato costantemente ribadito anche in epoca recente, con specifico riferimento alle società unipersonali, per le quali si confermato che la “coincidenza economica” tra socio e società non determina una fusione soggettiva delle rispettive posizioni giuridiche.
La distinzione formale e sostanziale permane, e con essa la possibilità che il socio unico testimoni nei confronti della società senza incorrere nell’incapacità prevista dall’art. 246 c.p.c.
Ne consegue che la capacità testimoniale del socio unico deve essere valutata alla luce di un criterio casistico e concreto, verificando se, in relazione al thema decidendum, sussista un interesse personale, diretto e attuale all’esito della controversia. Solo la presenza di un tale interesse — idoneo, in astratto, a legittimare la partecipazione del socio al giudizio ai sensi dell’art. 105 c.p.c. — può determinare una situazione di incapacità a testimoniare.
La valutazione della sussistenza di tale interesse spetta al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale, in base al principio del libero convincimento, deve motivare in modo adeguato sulla ricorrenza o meno della causa di incapacità. Tale valutazione è insindacabile in sede di legittimità, ove sorretta da argomentazione congrua e non illogica[6].
In senso conforme si è orientata anche la più recente giurisprudenza di merito, che ha riconosciuto la piena capacità a testimoniare del socio unico o del socio di società di capitali, nonché del socio accomandante di società in accomandita semplice, nelle controversie in cui la società sia parte, ribadendo che il loro interesse all’esito della lite è di natura puramente economica e, pertanto, inidoneo a integrare un interesse giuridico rilevante ai sensi dell’art. 246 c.p.c.6.
Questa impostazione, coerente con la teoria della separazione soggettiva, consente di preservare la funzionalità della prova testimoniale nelle controversie societarie, evitando un’interpretazione eccessivamente restrittiva dell’art. 246 c.p.c. che, se applicata automaticamente ai soci unici, finirebbe per negare ingiustificatamente l’accesso a una fonte di prova spesso indispensabile nei rapporti interni tra società e terzi.
5. Brevi conclusioni.
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale esaminato, può affermarsi che il socio unico di una società di capitali non è, ipso iure, incapace a testimoniare ai sensi dell’art. 246 c.p.c.
L’incapacità, infatti, non deriva automaticamente dalla titolarità totalitaria delle quote sociali, ma presuppone la sussistenza di un interesse giuridico concreto, personale e attuale nella causa, tale da legittimare il socio a intervenire nel giudizio in proprio ai sensi dell’art. 105 c.p.c.
La distinta soggettività giuridica della società rispetto al socio, principio cardine del diritto societario e riflesso dell’autonomia patrimoniale perfetta, comporta che quest’ultimo — anche se unico titolare del capitale — non è parte del rapporto giuridico oggetto del giudizio. Il suo eventuale interesse all’esito della lite si configura, pertanto, come mero interesse di fatto, non idoneo a determinare l’incapacità prevista dall’art. 246 c.p.c.
In questa prospettiva, la capacità testimoniale del socio unico si pone come regola, e la sua esclusione come eccezione, da applicarsi solo in presenza di elementi oggettivi che rivelino un coinvolgimento personale e giuridicamente qualificato del socio nella vicenda controversa.
Tale impostazione trova riscontro costante nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha chiarito che la coincidenza economica tra socio e società non comporta la confusione delle rispettive soggettività giuridiche.
Diversa è, invece, la posizione del legale rappresentante della società, il quale, per effetto del meccanismo dell’immedesimazione organica, si identifica funzionalmente con l’ente rappresentato. Egli agisce e dichiara in nome e per conto della società, assumendo la veste processuale della parte stessa; da ciò consegue la sua incapacità a testimoniare, poiché la sua posizione si sovrappone pienamente a quella della parte processuale.
In conclusione, la testimonianza del socio unico può essere ammessa, purché il giudice accerti in concreto l’assenza di un interesse giuridico personale e diretto del medesimo nella controversia.
Tale accertamento, rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito, richiede una valutazione sostanziale della posizione del socio in relazione al thema decidendum e alle circostanze del caso.
Solo ove tale valutazione evidenzi un effettivo coinvolgimento del socio negli interessi giuridici oggetto del giudizio potrà configurarsi una causa di incapacità, nel rispetto della ratio garantistica dell’art. 246 c.p.c., volta a preservare la terzietà e l’affidabilità della prova testimoniale senza sacrificare inutilmente l’efficacia del mezzo istruttorio
[1] Cfr. art. 246 c.p.c., il quale sancisce espressamente l’incapacità a testimoniare di chi abbia “nella causa un interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione al giudizio come parte”.
[2] In argomento si v.: Cass. civ., n. 6932/1987; Cass. civ., n. 14693/2002
[3] A tal proposito si veda quanto disposto dall’art. 157, comma 2, c.p.c., la nullità è sanata se la parte interessata vi assiste senza eccepirla immediatamente, con la conseguenza che la relativa eccezione è preclusa dopo la chiusura dell’assunzione della prova.
[5] Cfr. Cass. civ., Sez. II, 16 aprile 2013, n. 9188; conforme, Cass. civ., Sez. I, ord. 26 giugno 2023, n. 18225; Cass. civ., Sez. II, ord. 23 luglio 2018, n. 19498.
[6] Cfr. Cass. civ., Sez. lav., 3 ottobre 2007, n. 2073; Trib. Nola, Sez. I, sent. 3 ottobre 2023, n. 2513; Corte d’Appello Milano, Sez. I, sent. 8 giugno 2025, n. 1634.
Scarica Articolo PDF



