Diritto Fallimentare
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19771 - pubb. 11/01/2018
Crediti risarcitori derivanti da fatto colposo del curatore
Cassazione civile, sez. I, 11 Novembre 1998, n. 11379. Est. Ferro.
Crediti risarcitori derivanti da fatto colposo del curatore - Assimilabilità ai crediti relativi all'amministrazione del fallimento ed alla continuazione dell'esercizio dell'impresa - Conseguenze - Domanda giudiziale proposta in via ordinaria anziché in sede fallimentare - Inammissibilità - Fattispecie in tema di risarcimento danni derivanti da occupazione abusiva di locali oggetto di sfratto dell'azienda del fallito risultava sfrattata prima del fallimento
I crediti risarcitori derivanti da fatto colposo del curatore, attesane la predicabilità in termini di "costi" della procedura, sono assimilabili a quelli relativi all'amministrazione del fallimento ed alla continuazione dell'esercizio dell'impresa (ai crediti, cioè, cosiddetti "di massa", per i quali deve ritenersi consentita, in caso di mancata contestazione, l'adozione dello strumento del decreto "de plano" del giudice delegato ex art. 26 della legge fallimentare, senza necessità di ricorrere al subprocedimento dell'ammissione allo stato passivo di cui agli artt. 93 segg stessa legge), con la conseguenza che la relativa domanda giudiziale, se avanzata in via ordinaria, va dichiarata improponibile, attesa la competenza esclusiva, "in subiecta materia", del tribunale fallimentare (principio affermato dalla S.C. con riferimento ad una vicenda di credito risarcitorio da occupazione abusiva, da parte del fallimento, di un immobile già occupato a titolo di locazione dal fallito per l'esercizio dell'impresa, ed in relazione al quale era stata pronunciata sentenza di sfratto definitiva in epoca antecedente all'apertura della procedura concorsuale). (massima ufficiale)
Massimario Ragionato
- ∙ Crediti risarcitori derivanti da fatto colposo del curatore
- ∙ Accordi di ristrutturazione dei debiti e finziamenti prededucibili
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA
Composta dagli
Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo CARBONE Presidente
Dott. Enrico PAPA Consigliere
Dott. Vincenzo FERRO Cons. Relatore
Dott. Massimo BONOMO Consigliere
Dott. Stefano BENINI Consigliere
ha pronunciato la seguente:
S E N T E N Z A
sul ricorso
proposto da:
CENACCHI SILVANA, residente a Casalecchio, elettivamente domiciliata in Roma,
via dei Prati Fiscali 158, presso l'avv. Sergio Del Vecchio, che la rappresenta
e difende, anche disgiuntamente, con l'avv. Cesare Gamberini del foro di
Bologna, come da procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro il
FALLIMENTO della B. M. T. s.r.l., in persona del Curatore Enea Cocchi, autorizzato al presente giudizio con decreto del giudice delegato 30 agosto 1996, elettivamente domiciliato in Roma via Zanardelli 20 presso l'avv. Luigi Albisinni e rappresentato e difeso dall'avv. Michele Sesta del foro di Bologna, come da procura speciale in calce al controricorso,
- controricorrente -
avverso la
sentenza della Corte d'appello di Bologna 29 marzo/15 aprile 1996 n. 502. Udita
la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5 marzo 1998 dal
Relatore Cons. dott. Vincenzo Ferro;
Udito l'avv. Del Vecchio per la ricorrente;
Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Ennio
Attilio Sepe, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il 6 marzo
1991 Cenacchi Silvana otteneva ordinanza di convalida di sfratto in relazione
ad un immobile di sua proprietà adibito a sede di stabilimento industriale e
occupato a titolo di locazione dalla B.M.T. s.r.l. Nelle more del procedimento
esecutivo per il rilascio dell'immobile la B.M.T. s.r.l. veniva dichiarata
fallita con sentenza del Tribunale di Bologna 15 novembre 1991. Con atto di
citazione notificato il 9 giugno 1992 Cenacchi Silvana conveniva in giudizio
davanti al Tribunale di Bologna la Curatela del Fallimento della B.M.T. s.r.l.,
la quale era rimasta nella detenzione dell'immobile senza corrispondere alcun
corrispettivo, per sentirla condannare "alla rifusione dei danni nella
cifra che risulterà dovuta tenendo conto della mancata corresponsione del
canone di mercato, oltre interessi e rivalutazione monetaria." La Curatela
del fallimento eccepiva anzitutto la improponibilità della domanda risarcitoria
in sede di cognizione ordinaria, sostenendo che tale pretesa avrebbe dovuto essere
fatta valere nelle forme previste per l'accertamento del passivo fallimentare;
negando, poi, che potesse configurarsi mora nella restituzione a carico del
Fallimento, contestava la richiesta di interessi moratori e della rivalutazione
monetaria; chiedeva infine la condanna della Cenacchi al risarcimento dei danni
ai sensi dell'art. 96 C.P.C. per avere la stessa agito in giudizio con colpa
grave. Con sentenza 9 gennaio/11 marzo 1995 il Tribunale di Bologna
disattendeva l'eccezione di improponibilità della domanda, rilevando che la
competenza funzionale del giudice fallimentare era da escludere ogniqualvolta
l'azione non riguardasse la proceduta concorsuale nella sua funzione specifica
ma fosse ad essa collegata da un rapporto di mera occasionalità; affermava la
illegittimità della detenzione dell'immobile da parte della Curatela; negava
che il danno potesse essere liquidato come richiesto nella misura
corrispondente al canone di libero mercato, in difetto di prova della
possibilità di locare l'immobile a un canone superiore a quello precedentemente
pattuito; condannava quindi il fallimento a pagare la somma di lire 359.566.201
pari all'ammontare dei canoni non corrisposti a partire dalla data della
dichiarazione del fallimento fino al 24 dicembre 1994 con la rivalutazione
monetaria secondo gli indici ISTAT dalle singole scadenze alla data della
decisione e agli interessi legali sulle somme rivalutate dalle singole scadenze
al saldo; rigettava in quanto inammissibilmente proposta solo in comparsa
conclusionale, la domanda della Cenacchi per il risarcimento del maggior danno
ai sensi dell'art. 1591 C.C.;
rigettava la domanda riconvenzionale del fallimento di cui all'art.96 C.P.C.;
condannava il Fallimento al rimborso delle spese.
Proponeva appello la Curatela del Fallimento, chiedendo: in via principale e
pregiudiziale, accertarsi e dichiararsi l'improponibilità della domanda; nel
merito, in via subordinata, respingersi la domanda dell'attrice ovvero ridursi
nella giusta misura l'importo da corrispondersi alla stessa, tenuto conto della
pregressa ammissione al passivo con esclusione di rivalutazione monetaria ed
interessi o quanto meno con indicazione di diversa decorrenza degli interessi;
in via di ulteriore subordine, disporsi la compensazione delle spese. Cenacchi
Silvana resisteva al gravame e proponeva appello incidentale reiterando la
domanda risarcitoria ai sensi dell'art. 1591 C.C. Con sentenza 29 marzo/15
aprile 502 la Corte di Bologna, in totale riforma della decisione di primo
grado, dichiarava improponibile la domanda di Cenacchi Silvana, dando atto
dell'assorbimento in tale decisione di ogni altra questione, e condannando la
medesima al rimborso delle spese di entrambi i gradi del giudizio. Per la
cassazione di quest'ultima sentenza Cenacchi Silvana propone il presente
ricorso per cassazione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l'unico
motivo a cui è affidato il ricorso, Cenacchi Silvana, sulla premessa della non
configurabilità di una successione della Curatela fallimentare nel rapporto
locativo ormai caducato alla data della dichiarazione del fallimento, e quindi
del carattere di illiceità rivestito dalla protrazione dell'occupazione
dell'immobile, insiste nell'affermare l'esperibilità della tutela
giurisdizionale ordinaria della propria pretesa risarcitoria correlata alla
suindicata situazione, e quindi dell'ammissibilità e della proponibilità della
propria domanda nella sede contenziosa adita. E sottopone a critica, a tal
fine, la decisione della Corte di merito ove, sulla scorta di precedenti della
giurisprudenza di legittimità ivi citati, si afferma che "quando il credito
verso il fallimento, prededucibile (come nel caso, trattandosi di credito verso
la massa) è contestato (altrimenti può provvedersi de plano), la via da seguire
è quella dell'insinuazione allo stato passivo", in quanto "le
questioni attinenti all'esistenza e all'ammontare dei crediti verso la massa
sono deducibili esclusivamente in sede di ammissione e verificazione dello
stato passivo e giudizio di opposizione avverso il medesimo", con la
conseguenza della "improponibilità della domanda in via contenziosa
ordinaria instaurata dal creditore mediante atto di citazione nei confronti del
curatore del fallimento".
La censura è infondata, e come tale va disattesa.
Nell'art. 111 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 -primo comma, n. 1- viene collocato
al primo posto, nell'ordine di distribuzione delle somme ricavate dalla
liquidazione dell'attivo fallimentare, il pagamento delle spese, comprese
quelle anticipate dall'erario, e dei debiti contratti per l'amministrazione e
per la continuazione dell'esercizio dell'impresa se ed in quanto autorizzato; e
l'ultimo comma dello stesso articolo stabilisce che "i prelevamenti
indicati al n. 1 sono determinati con decreto del giudice delegato." Tale
previsione è riferibile a tutte le obbligazioni, sorte dopo la dichiarazione
del fallimento, la cui titolarità passiva faccia capo all'ufficio fallimentare,
in funzione della gestione del patrimonio del fallito e delle necessità
dell'attuazione del processo esecutivo concorsuale. Non si richiede a tal fine
la correlazione con un'attività negoziale del curatore, essendo invece
sufficiente una apprezzabile connessione causale con l'attività funzionale
dell'ufficio fallimentare. In particolare, anche i crediti di natura
risarcitoria, traenti titolo da eventuali comportamenti colposi del Curatore,
sono da assimilare a quelli scaturenti dall'attività di amministrazione del
fallimento e di continuazione dell'esercizio dell'impresa, in quanto pur sempre
qualificabili come costi della procedura: resta così, tra l'altro, priva di
rilevanza nel caso in esame la deduzione che formava oggetto del secondo motivo
di appello nel senso della riconducibilità della perdurante occupazione
dell'immobile ad apprezzabili esigenze di gestione della procedura
fallimentare, e quindi a causa non imputabile alla Curatela a titolo di colpa.
Appare, per vero, sotto molti aspetti non appagante -ed incontra, infatti,
significativi dissensi in dottrina- la costruzione sistematica ricorrente nella
giurisprudenza (alla quale, come si è visto, aderisce espressamente la Corte di
merito), secondo cui la partecipazione del creditore portatore di uno dei
cosiddetti debiti di massa alla fase procedimentale della ripartizione
dell'attivo è resa possibile dal decreto del giudice delegato previsto
dall'art. 111 della legge fallimentare, il quale peraltro adempie ad una
funzione meramente ricognitiva di situazioni creditorie la cui enunciazione
trova nel progetto di distribuzione la loro finale collocazione e il cui
accertamento deve necessariamente e prioritariamente avvenire nella sede
prevista per la verificazione del passivo (art. 93 e seguenti della legge
fallimentare) comprensiva, se del caso, delle fasi dell'opposizione allo stato
passivo di cui all'art. 98 e delle dichiarazioni tardive di cui all'art. 101.
Fermo restando che la ricordata previsione normativa attiene, nella struttura
della procedura concorsuale, alla fase satisfattoria, e non esprime una
consapevole risposta nomotetica al problema della individuazione del titolo
alla partecipazione al concorso per quanto riguarda i crediti contratti
dall'ufficio, non pare congruente l'utilizzazione dello strumento riservato
alla verificazione dei crediti sorti anteriormente al fallimento verso il
fallito e come tali soggetti alla falcidie concorsuale (in misura sulla quale
influisce in modo determinante la graduazione di essi in funzione delle
eventuali cause di prelazione), ai fini del soddisfacimento di un'altra
categoria di crediti che dalla prima si differenzia non solo per la diversa -e
contrapposta- collocazione cronologica della matrice genetica ma altresì per la
peculiarità inerente proprio alla ragione di essere dell'ammissione al
soddisfacimento nell'ambito del concorso: infatti, i crediti concorsuali sono
riconducibili ad una originaria genesi qualificata dalla garanzia patrimoniale
generica (che riceve concreta -e se del caso parziale- realizzazione nel
processo esecutivo singolare od universale), laddove i crediti insorgenti dopo
la dichiarazione del fallimento risulterebbero, in difetto di previsione della
prededuzione, carenti di qualsiasi garanzia ed anzi caratterizzati dalla
certezza dell'incapienza (almeno endofallimentare) in virtù del principio della
insensibilità del patrimonio del fallito alle modificazioni di segno negativo
su di esso incidenti successive all'apertura del concorso, e, per converso, in
virtù della prededuzione, acquistano titolo al soddisfacimento immediato e
integrale in applicazione del criterio prior in tempore potior in jure
sottraendosi (almeno tendenzialmente, e a prescindere dal caso limite della
insufficienza dell'attivo) alla graduazione. In relazione a tale distinzione,
non può essere sottovalutata, sul piano dell'interpretazione testuale, la
contrapposizione del riferimento alla ammissione dei crediti, chirografari o
privilegiati, di cui al n. 2 e al n. 3 del primo comma dell'art. 111 e del
riferimento alla determinazione del giudice delegato di cui al secondo comma
dello stesso articolo con introduzione di una specifica indicazione che
risulterebbe priva di senso se il legislatore avesse voluto assoggettare anche
i crediti di massa alla procedura di accertamento del passivo concorsuale.
Del resto, non è estranea alla giurisprudenza di legittimità l'ammissione della
possibilità dell'esenzione dalla procedura di verificazione del passivo dei
crediti sorti durante l'amministrazione del fallimento in considerazione del
maggior grado di certezza che li contraddistingue rispetto ai crediti verso il
fallito. Sembra perciò ragionevolmente configurabile un sistema nel quale
l'accertamento, nell'an e nel quantum, dei crediti da soddisfarsi in
prededuzione avvenga necessariamente nell'ambito della procedura concorsuale,
in un subprocedimento che non debba essere esclusivamente e inevitabilmente
identificato in quello previsto dagli art. 93 e seguenti della legge
fallimentare, ma che possa attuarsi mediante gli strumenti del decreto del
giudice delegato e dell'eventuale susseguente gravame attraverso il reclamo ai
sensi dell'art. 26 della stessa legge e il susseguente decreto del Tribunale,
con valorizzazione al riguardo del principio accolto dalla giurisprudenza nel
senso che il provvedimento determinativo di cui all'art. 111 è impugnabile con
reclamo al Tribunale (il cui decreto è a sua volta impugnabile con ricorso
straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.) se ed in quanto
lesivo di posizioni di diritto soggettivo. E le situazioni, menzionate nella
motivazione della sentenza impugnata, in cui il credito prededuttivo non
contestato può essere riconosciuto con provvedimento de plano, non
rappresentano ipotesi di esclusione di un credito all'accertamento fallimentare
(inteso nel senso ampio suindicato) ma riflettono il possibile carattere
postumo che il piano di ripartizione può assumere rispetto a determinati
pagamenti effettuati in precedenza - non solo di crediti prededuttivi ma anche
di taluni crediti concorsuali da pagarsi integralmente e immediatamente (v.
art. 53), dei quali comunque dovrà darsi formalmente conto nel piano di
distribuzione parziale o finale.
Non è necessaria, tuttavia, ai fini del decidere, una espressa specifica presa
di posizione da parte di questo Collegio in ordine alla problematica suesposta,
a correzione delle indicazioni al riguardo emergenti dalla motivazione della
sentenza denunziata, in quanto la materia del contendere non investe l'opzione
tra il ricorso, nell'ambito della procedura fallimentare, allo strumento
dell'ammissione al passivo o a quello del decreto e dell'eventuale conseguente
reclamo a norma del coordinato disposto degli art. 111 e 26 R.D. 16 marzo
1942 n. 267, ma esige soltanto lo scioglimento dell'alternativa tra l'accesso
ad una delle suindicate forme di tutela di foro interno e l'esperibilità di una
tutela extrafallimentare in sede di cognizione ordinaria nella quale il "fallimento",
considerato come autonomo centro di imputazione di rapporti e di interessi
correlati al patrimonio del fallito, possa assumere la stessa posizione
processuale di qualsivoglia soggetto passivo di un'obbligazione convenuto in
giudizio per l'adempimento della stessa.
È necessario e sufficiente, quindi, rilevare che la
preclusione, posta dall'art. 52 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267, di forme di
tutela diverse da quelle dell'accertamento endofallimentare, la quale assume
rilevanza ad un tempo strumentale e complementare rispetto al divieto delle
azioni esecutive individuali sancito nell'art. 51 trovando la sua ragione di
essere nel carattere di indefettibile unitarietà della realizzazione del
concorso in vista dell'attuazione della par condicio creditorum, non è limitata
alle posizioni dei creditori che, qualificabili come concorsuali al momento
della dichiarazione del fallimento, diventano concorrenti per effetto del
riconoscimento del loro credito ad opera degli organi fallimentari, ma si
applica anche ad ogni pretesa creditoria successivamente insorta e suscettibile
di soddisfacimento sul patrimonio del fallito. La preclusione investe ogni
azione di condanna -e si estende alle azioni di mero accertamento che risultino
prodromiche ad una futura conseguenziale condanna perché la condanna prelude
all'esecuzione singolare, laddove nessuna fattispecie satisfattoria di
posizioni creditorie particolari, incidente con effetto depauperatorio sul
patrimonio del fallito vincolato al soddisfacimento paritetico dei creditori
nel rispetto delle cause legittime di prelazione (alle quali possono essere
assimilati, in senso ampio e per i fini che qui interessano, i crediti
prededuttivi), può legittimamente trovare luogo al di fuori del concorso.
In base ai principi generali richiamati, la presente vicenda processuale esige
esito decisionale corrispondente a quello espresso in una non recente sentenza
di questa stessa Corte con cui, in fattispecie del tutto analoga a quella
attualmente sub judice, è stata dichiarata "improponibile la domanda
diretta in via contenziosa ordinaria dell'attore con atto di citazione contro
il fallimento per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito di
occupazione abusiva da parte dell'amministrazione fallimentare di locali già
detenuti in locazione dalla società, che ne era stata sfrattata prima che fosse
dichiarato il fallimento" (Cass. 4166/1977). Osservasi da ultimo
che, poiché non si configura una questione relativa alla competenza
-influenzata dalla vis attractiva del Tribunale fallimentare- ma una questione
di specialità del rito, risulta assolutamente non pertinente l'ulteriore
subordinato rilievo con cui la ricorrente ricorda che la distinzione tra il
Tribunale fallimentare e il Tribunale ordinario non assume significato ai fini
della competenza qualora non siano territorialmente distinti il Tribunale che
ha dichiarato il fallimento e il Tribunale a cui apparterrebbe la cognizione
della controversia se questa non avesse carattere fallimentare.
Riceve, pertanto, reiezione il ricorso di Cenacchi Silvana. Si ravvisano giusti
motivi per la totale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di
legittimità.
P.Q.M.
la Corte
rigetta il
ricorso proposto da Cenacchi Silvana avverso la sentenza della Corte di appello
di Bologna 29 marzo/15 aprile 1996 n. 502; compensa integralmente tra le parti
le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 5 marzo 1998.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 1998.